venerdì 7 dicembre 2012

Le Bannìste



Ormai, l’aria del Natale si respira ovunque, strade e negozi addobbati con festoni e luminarie. In ogni casa è spuntato l’alberello e in alcune anche  il presepe. L’odore di olio fritto, zucchero e miele invade ogni vicolo. Pettole, sannacchiudde e purcedduzze, bandiscono le tavole.
Ma anche se non ci fosse tutto questo, l’aria del Natale ossigenerebbe ugualmente i nostri cuori, perché viaggia sul pentagramma con le note delle nostre amate pastorali che svegliano la città in questi giorni, facendo da colonna sonora all’alba festiva.
La banda a Taranto è la componente primaria dei riti e delle tradizioni natalizie e pasquali, senza la banda non è festa. E’ la banda a riproporre questa musica antica che ci regala una gioia sempre nuova e benchè “la musica è sempre la stessa”,  ogni anno sentiamo la nostalgia di riascoltarla, per riscoprire ogni volta una nuova emozione. Quelle note, sempre le stesse e uguali per tutti, sembrano avere il dono di cambiare per ognuno di noi, assurdo! ma forse forse è così…
Sono note che si caricano delle gioie, dei dolori ma soprattutto delle speranze di ognuno di noi, e a rendere possibile questo piccolo grande miracolo sono loro... le bannìste.
Far parte della banda era un ruolo di prestigio, chi ne aveva la possibilità faceva a gara per poter suonare nella banda …le tammùrre, a grancàsce o “semplicemente” le tattazzìnne e proprio l’importanza di questi riti ha dato alle bannìste gloria e fama… ma purtroppo anche tanta fame, si proprio fame, perchè per ironia della sorte, proprio loro che suonavano, di “moneta sonante” ne sentivano ben poca. Si trattava di un lavoro “occasionalmente popolareligioso” che non garantiva lauti proventi, e a tal proposito anche per loro la saggezza popolare ha coniato dei proverbi come:

Le bannìste,  p’a fame perdene a vìste
che non ha bisogno di commenti,  ma c’è un proverbio che meglio si addice alla condizione del bandista nel contesto della realtà tarantina:

Le bannìste campàne sotte a Criste, e quanne finisce a fèste vònne a solde a ‘mbrièste.
Per questa sua peculiarità, nella maggior parte dei casi quello d’u bannìste era …“il secondo lavoro o il “dopo lavoro” dei maestri artigiani, amanti della musica ma dilettanti dello spartito.
A fine giornata e nei giorni liberi dagli impegni lavorativi, si riunivano in qualche rimessa o scantinato, messi a disposizione da qualcuno di loro che ne aveva la disponibilità, e  guidati da un maestro, provavano le varie composizioni da eseguire orgogliosamente nei giorni di festa.
L’importanza che i riti natalizi e pasquali hanno per i tarantini,  è nota, ma altrettanto forte è l’attaccamento dei tarantini verso le bande.
All’inizio era il suono delle zampogne dei pastori che scendevano dalle montagne per portare le loro greggi a pascolare nelle nostre campagne. Loro suonavano le loro nenie per le vie della città, elemosinando un tozzo di pane,  e i tarantini non negavano loro un pasto caldo consumato al calore d’a frascère. Poi a Taranto gli zampognari non sono scesi più,  ma la tradizione di accompagnare le feste con la colonna sonora delle loro pastorali è rimasta, grazie a musicisti come il maestro  Giovanni Ippolito che nel 1870 compose la prima pastorale tarantina,  seguito negli anni successivi da altri compositori come Francesco De Benedictis, Giacomo Lacerenza , Francesco Battista, Domenico Colucci, E. Vernaglione, D.N. La Tagliata, D. Minniti, Vittorio Manente ( dal titolo “Ninna nanna  a Gesù Bambino”), Vincenzo Simonetti  (dal titolo “Il Messia a Bethlemme” ) Giuseppe Gregucci  ( intitolate “Aurore natalizie” e “Santa Cecilia”) e altri come Nino La Nave, Michele Ventrelli, Carlo Carducci.
Ad oggi le pastorali sono più di venti e vengono eseguite dai complessi bandistici più famosi:
- la banda “Santa Cecilia” del maestro Giuseppe Gregucci,
- la banda “G. Paisiello” del prof. Vincenzo Simonetti,
- la banda “Lemma” di Berardino Lemma, figlio dell’indimenticabile “ meste Mengucce”  al secolo
  Domenico Lemma
- la banda  “Maria SS. Addolorata” del maestro Nicola Orlando –
Sono loro che durante le notti di vigilia,  girano per la città suonandoci le dolci ninne nanne che ci tengono svegli, ma alzarsi all’alba per impastare, non è un sacrificio ma un piacere vissuto con la gioia della festa.
Sono tanti quelli che, nonostante i primi freddi,  passano le notti di vigilia in piedi per preparare il liquore, il caffè bollente e le pettole calde calde, per rifocillare le bannìste – un gesto semplice che ricorda l’accoglienza riservata agli zampognari e perpetua il ringraziamento a chi riesce con una nenia ad assopire i cattivi pensieri allietando i nostri cuori.
Quando da lontano si sentono le prime note scatta l’allarme < stè passe ‘a ‘banne! >… chi scende giù con vassoi e coppe e chi corre a svegliare i bambini, e poi tutti imbacuccati in cappotti e sciarpe si scende per strada o ci si affaccia al balcone, e al suono delle dolci note delle pastorali che man mano si fanno sempre più nitide, si attende l’arrivo della banda, perchè avere la banda sotto casa è un onore, ma ascoltare le nostre pastorali  è un vero piacere.
Le pastorali tarantine sono belle proprio perchè sono “diverse” dalle solite. La loro melodia è un compendio di vita quotidiana e religiosità; nelle loro note si può ascoltare il canto  delle donne, mogli e madri, che intonando l’Inno alla Vergine:  “O Concetta Immacolata”,   chiedono alla Madonna eterna protezione per la città;
Ma è anche facile sentire in quella melodia,  il  rumore delle onde che si intreccia con le note del tradizionale “tu scendi dalle stelle”  intonato da pescatori che invocano la protezione del Bambinello per la loro, e nostra,  “marinara vetusta città”.
Buona Immacolata.

domenica 9 settembre 2012

‘U Luvàto

Oggi per gli impasti lievitati usiamo il lievito di birra che troviamo nel banco frigo di ogni negozio di alimentari. Senza quei cubetti magici, non sapremmo come far lievitare i nostri impasti.
Le nostre nonne non lo conoscevano, eppure il pane e le focacce che facevano erano soffici, i loro impasti crescevano grazie ad un sortilegio chiamato ‘U Luvàto
Una volta era lui l’ingrediente indispensabile per la riuscita degli impasti. Proprio l’importanza di questo elemento e l’effetto che produceva nei semplici impasti di farina, acqua e sale – facendoli raddoppiare di volume – ha circondato ‘u luvàto di una mistica ritualità scaramantica. La ricetta e il procedimento per ottenere ‘u luvàto, conosciuti da “’a furnàre” e da qualche donna anziana, erano segreti gelosamente custoditi e tramandati da madre in figlia per generazioni.
Ma cos’era ‘u luvàto?
Quello che oggi chiamiamo lievito madre. Un pezzo di pasta acida… un semplice, piccolo impasto di farina acqua olio e miele, che veniva lavorato e lasciato a riposare per tre giorni interi ind’nà cuppetèdde cucciàte cu nu’ salviètte – poi veniva lavorato una seconda volta, aggiungendo farina e acqua, e dopo averlo fatto riposare per altri tre giorni si lavorava ancora aggiungendo altra farina e altra acqua – e finalmente ‘ù luvàto era pronto per essere usato.
Come?
La sera prima di preparare l’impasto, indre nà coppètte si squagghiava nu’ poche de luvàto con acqua calda e farina, si copriva e si lasciava a fermentare tutta la notte. La mattina era pronto ‘u criscetùre (il lievito) che in parte veniva incorporato nel grande impasto.
Al rimanente si aggiungeva farina e acqua e si lasciava a fermentare per creare altro luvàto.
Da questo deriva anche il nome luvàto, che in dialetto significa levato, tolto - proprio come il pezzo d'impasto che viene tolto dalla coppetta per poter formare ‘u criscetùre, che era il vero e proprio lievito.
I misteriosi segreti non finiscono qui.
Intorno a questo magico ingrediente c’erano anche dei gesti che dovevano essere categoricamente ripetuti, come ad esempio quello di preparare ‘u luvàto nelle sere di luna crescente e di luna piena, propiziatorie alla crescita.
Altri gesti invece dovevano essere rigorosamente evitati: ‘u luvàto non poteva essere impastato dalle donne quando “le purtavene ‘nguèdde” (nel periodo mestruale) – altrimenti ammuffiva.
Un consiglio popolare sentenziava: <‘u luvàto no s’accàtte, se ‘mbrèste,> (non si compra, si chiede in prestito); …e questo spiegava il giro propiziatorio “de stà cuppetèdde cù stù stuezze de paste” da nà case all’òtre… di parenti amici vicini e conoscenti. Quando si faceva il pane si usava fare ‘u muolitijdde, ossia una piccola pagnotta, che una volta cotta si portava a chi aveva prestato ‘u luvàte… …mentre a cuppetèdde c’u luvàte rumaste, continuava il suo giro.
La magia di certe usanze è legata al mondo contadino caratterizzato da estrema precarietà alimentare. Un mondo in cui il pane era il premio della fatica quotidiana, il prezzo del sacrificio, era l’unico elemento di cui non si poteva fare a meno, e per questo non si negava a nessuno. Un cibo semplice ma preziosissimo che andava protetto benedetto e custodito con gesti e riti che ne confermano la sacralità, perché il pane è la vita stessa.

lunedì 2 luglio 2012

Il barone di Santacroce

La Taranto degli ultimi decenni dell’Ottocento era una città con tanti problemi. 
Non esistevano veri e propri partiti politici”, bensì associazioni: quella Progressista Pro-Taranto del conte on. Pietro D’Ayala Valva e quella Democratica dell’on. Nicola Lo Re che tramavano nei Consigli comunali e sugli scranni del parlamento per accaparrarsi  promesse e quattrini del Regno.
Borghesia e  nobiltà si arricchivano alle spalle della città appoggiando i politici.
Gli imprenditori, avventurieri, inerti e paurosi, speculavano su tutto e su tutti;
Il popolo stanco e affamato anelava quello stipendio sicuro a fine mese che non aveva mai visto e che gli veniva prospettato.
Mondi diversi uniti da un sogno imposto: Taranto capitale militare d’Italia.
Purtroppo o per fortuna, qualcuno non la pensava così: Domenico Sebastio barone di Santacroce, credeva in una Taranto economicamente diversa, vedeva il Mar Piccolo come la culla di una economia fatta di mitilicoltura,  pesca, commercio, ricchezze tipiche del nostro territorio. 
Sindaco di Taranto  dal  31 marzo 1875  al  29 aprile 1876 - fondò il primo istituto di credito: la Cassa Tarantina dell’Industria e del Commercio, una cosa nuova per Taranto.
Le sue ambizioni politiche, però, lo coinvolsero a tal punto da portarlo a dilapidare le sue risorse e i depositi della Cassa di risparmio da lui fondata.
Come se non bastasse, vennero fuori delle cambiali, a quanto pare false ma con la firma del barone. Uno scandalo che impaurì e sfiduciò i risparmiatori che, preccupati per i loro capitali, si allontanarono dalla Cassa.
Il 29 giugno 1882 il Parlamento italiano decise la costruzione del Regio Arsenale.
Palazzo Santacroce - Taranto
Un susseguirsi di eventi che minarono le sicurezze e demolirono ogni speranza, portando il barone ad allontanarsi da Taranto.
Il 2 luglio 1882 era nella stazione si Napoli a pensare alle sue sconfitte mentre fumava un sigaro che andava in fumo e svaniva, come i suoi sogni. Pensieri che, insieme alla solitudine e alla disperazione, gli dettero la forza di impugnare la pistola e porre fine alla sua vita, sparandosi un colpo di pistola alla tempia, decretando la sua sconfitta.

Palazzo Santacroce


Palazzo Santacroce - Taranto
A Taranto vecchia in Vicolo Seminario al civico 17  c'è un Palazzo che racconta una storia dall'epilogo funesto: Palazzo Santacroce, appartenuto alla famiglia Sebastio, baroni di Santacroce.

La Taranto degli ultimi decenni dell’Ottocento era una città con tanti problemi. 
Non esistevano veri e propri partiti politici”, bensì associazioni: quella Progressista Pro-Taranto del conte on. Pietro D’Ayala Valva e quella Democratica dell’on. Nicola Lo Re che tramavano nei Consigli comunali e sugli scranni del parlamento per accaparrarsi  promesse e quattrini del Regno.
Borghesia e  nobiltà si arricchivano alle spalle della città appoggiando i politici.
Gli imprenditori, avventurieri, inerti e paurosi, speculavano su tutto e su tutti;
Il popolo stanco e affamato anelava quello stipendio sicuro a fine mese che non aveva mai visto e che gli veniva prospettato.
Mondi diversi uniti da un sogno imposto: Taranto capitale militare d’Italia.
Purtroppo o per fortuna, qualcuno non la pensava così: Domenico Sebastio barone di Santacroce, credeva in una Taranto economicamente diversa, vedeva il Mar Piccolo come la culla di una economia fatta di mitilicoltura,  pesca, commercio, ricchezze tipiche del nostro territorio. 
Sindaco di Taranto  dal  31 marzo 1875  al  29 aprile 1876 - fondò il primo istituto di credito: la Cassa Tarantina dell’Industria e del Commercio, una cosa nuova per Taranto.
Le sue ambizioni politiche, però, lo coinvolsero a tal punto da portarlo a dilapidare le sue risorse e i depositi della Cassa di risparmio da lui fondata.
Come se non bastasse, vennero fuori delle cambiali, a quanto pare false ma con la firma del barone. Uno scandalo che impaurì e sfiduciò i risparmiatori che, preccupati per i loro capitali, si allontanarono dalla Cassa.
Il 29 giugno 1882 il Parlamento italiano decise la costruzione del Regio Arsenale.
Un susseguirsi di eventi che minarono le sicurezze e demolirono ogni speranza, portando il barone ad allontanarsi da Taranto.
Il 2 luglio 1882 era nella stazione si Napoli a pensare alle sue sconfitte mentre fumava un sigaro che andava in fumo e svaniva, come i suoi sogni. Pensieri che, insieme alla solitudine e alla disperazione, gli dettero la forza di impugnare la pistola e porre fine alla sua vita, sparandosi un colpo di pistola alla tempia, decretando la sua sconfitta.

domenica 24 giugno 2012

'U Sangiuànne

Il modello evangelico del battesimo di Gesù, che fu battezzato nel fiume Giordano dal cugino Giovanni, che per questo fu detto "il Battista", ha dato inizio ai rapporti di comparatico "  'u cumparizie", o " 'u sangiuànne" perchè San Giovanni Battista fu il primo "compare".
Con l'espressione "attaccà 'u Sangiuànne" si indicava proprio il legame tra u’suscette (il figlioccio,  il bambino ) e ‘u nununne ( il padrino e la madrina che lo battezzavano)  i quali avevano il compito di aiutare i genitori o sostituirli in caso di assenza per emigrazione o per le sventure della vita.
U' sangiuanne non si negava mai, anzi, tale proposta era da considerarsi un onore. Normalmente,  non si "attaccava" con un parente ma una persona al di fuori della famiglia, perché doveva  curare gli interessi "d'u cumparjiedde" o " d'a cummaredde" (il figlioccio o la figlioccia) senza secondi fini.

Il sodalizio de 'u Sangiuanne coinvolgeva anche le famiglie, ed era molto forte, al punto da far superare qualsiasi incomprensione. Anche nel rarissimo caso in cui tra le due famiglie succedevano fatti spiacevoli, nessuno avrebbe mai potuto rompere il vincolo tra padrino/madrina e battezzato/a, perchè "stave u' Sangiuanne pe le mienze".
Di contro, il figlioccio doveva rispetto al compare e anticamente, incontrandolo doveva baciargli la mano – gesto detto " ‘u vasamane d'u sciusciette", (il baciamano del figlioccio).

In seguito questo termine è stato esteso anche agli altri rapporti di comparatico, come la Cresima e il Matrimonio.
 
Oltre queste tipiche forme di comparatico ufficiale, c'era il comparatico tra amici, definito anche "parentela fittizia" che consisteva in una relazione spirituale, che due persone contraevano in seguito a vari riti popolari proprio il giorno di San Giovanni  ed era ritenuta indissolubile e sacra più del legame fisico e genetico , il "comparizio", di duratura fraternità e fedeltà.
San Giovanni Battista, infatti, è il patrono dell’amicizia e si tramanda che punisse con severità coloro che tradivano l’amico caro.
Tra “ compari”, c'era rispetto, grande dedizione…
 ma anche grandi tradimenti,  per questo  l’amante viene indicato/a come " 'u cumbare" e " ‘a cummare"...
 

domenica 3 giugno 2012

Mutatis mutandi….

Continuando il viaggio tra i capi di abbigliamento non si può non parlare anche di loro...
Mutatis mutandi…. ossia come son cambiate le mutande!
Il loro nome “mutanda” deriva da questa locuzione latina che, non a caso,  esorta a cambiarle…
Fino alla seconda metà del XIV° secolo nel corredo di ogni donna “l’indumento mutanda” non esisteva.
Le donne, anche le signore dell’alta società,  seguivano la moda…“sotto il vestito niente”. Le mutande venivano riservate alle signore freddolose o malate e le domestiche le usavano solo durante la pulizia delle finestre.  Il perché è dovuto alla moda dei lunghi vestiti femminili dotati di larghissime gonne, le tonnellate di sottovesti e crinoline che le sorreggevano erano ugualmente un buona difesa, anche se talvolta accadevano incidenti come quello narrato da Rousseau nelle Confessioni : “Potrei raccontarvi l’aneddoto di Mademoiselle Lambercier che, per un’infelice caduta in fondo al prato, finì lunga e distesa mostrando en plain air il suo posteriore al re di Sardegna”.
Ma, un incidente analogo accadde anche al fantomatico arciprete di lucugnano papa Caiazzo ( don Galeazzo) che una domenica dopo aver celebrato la messa, si affrettava ad uscire facendosi largo tra le bizzoche che spettegolavano sulla gradinata esortandole a tornare a casa. Una di queste per far strada al passaggio dell’arciprete, mise il piede a vuoto  e cadde  ruzzolando sui gradini della chiesa finendo gambe all’aria. Mentre si ricomponeva velocemente, l’arciprete avendo visto tutta la scena, le si avvicinò per aiutarla a rialzarsi chiedendole se si era fatta male: "madonna arciprè agghu vistu tutti li stèdde n’cielu!" E l’arciprete di rimando: e iu la luna a quintadecima!...

Poi arrivò “U’ cavezone” conosciuto anche come “mutande longhe”, lungo fin sotto le ginocchia, erano composte da due parti aperte tra le gambe e allacciate alla vita.
Le mutande della nonna!... ma che mutande... le donne di allora apparentemente portavano le mutande molte lunghe, ma, in effetti, dove più occorreva coprirsi erano totalmente scoperte e bastava che si sedessero un po' “scomposte”  o  alzassero la la “vistiscedda”,  che si scopriva tutto ciò che si voleva nascondere.  Però il loro utilizzo quotidiano rimase sino ai primi decenni del Novecento una prerogativa di nobili e borghesi, mentre popolane e contadine continuavano a considerarle un capo per le grandi occasioni, un optional, un lusso senza senso. Poi piano piano,  tutte si convertirono.
Il primo momento di gloria di questo capo si deve, nel Cinquecento, a Caterina De Medici. La regina di Francia era un’abile cavallerizza e lanciò una nuova moda di montare in sella che prevedeva un’agilità tale per cui c’era il rischio di mettere in vista le grazie femminili. Fu proprio questo il motivo che spinse Caterina a servirsi delle mutande, evitando così imbarazzanti esposizioni delle “parti segrete”. Le «briglie da culo» – così vennero chiamate – indossate dalla Regina divennero presto un indumento diffuso tra le dame dell’epoca, che le indossavano come un capo di lusso stravagante rendendole perciò biasimevoli e peccaminose. Ma la moda delle mutande fu un fuoco di paglia, rimase circoscritta e limitata, e svanì nel corso del Seicento e Settecento, secoli nei quali scomparvero anche dal guardaroba della nobiltà.
Dobbiamo arrivare all’Ottocento per sentire di nuovo parlare di mutande. In questo secolo esse avevano lo scopo di coprire il corpo e custodire il riserbo delle donne. Erano gli anni del decoro borghese, la cosiddetta pruderie, che bandiva ogni forma di sessualità sia nelle maniere che nelle apparenze. La mania del decoro e di coprire tutto ciò che poteva essere coperto provocò la diffusione di mutandoni, lunghi fino alle caviglie, guarniti di merletti. E quando all’inizio del Novecento (con lo scoppio della Grande Guerra), il gentil sesso si tolse busto e corsetti e iniziò ad accorciare le gonne per sentirsi più agili, le mutande divennero indispensabili e anch’esse, progressivamente si ridussero: i mutandoni, adattandosi al nuovo abbigliamento salivano sempre più in alto, un’evoluzione che porterà, pian piano l’indumento a trasformarsi in quelle mutandine o slip di cui oggi non si può più fare a meno. Insomma la mutanda prima di adottare le odierne caratteristiche, con le sue forme e i suoi colori ha dovuto subire diverse rivoluzioni della moda e del costume, che solo di riflesso condizionarono il capo di abbigliamento intimo.
Negli anni Cinquanta, grazie anche all’immissione sul mercato di tessuti duttili e a basso costo, la diffusione degli slip divenne inarrestabile e la moda dell’intimo un vero e proprio fenomeno multiforme, infatti, nel guardaroba di una signora potevano esserci numerosi pezzi di mutandine che spaziavano per stile, colori e tessuti. Dobbiamo arrivare agli anni Sessanta e Settanta perché la donna si focalizzi definitivamente sulla mutande o slip come capo irrinunciabile per svariati motivi: igiene, decenza ed estetica.

domenica 27 maggio 2012

'u sunale


Dopo a’ curèscia occorre parlare di un altro accessorio importante, il grembiule.
Richiama l'immagine della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia.
Chissà quante volte, noi donne, indossiamo un grembiule per evitare di sporcarci gli abiti. E chissà quante volte, voi uomini, ci vedete con indosso tale indumento e pensate che siamo sciatte e poco femminili, ma nell'antichità le cose stavano diversamente e quello che oggi rappresenta un banale "attrezzo" da cucina, nel passato era anche simbolo dei ruoli femminili: la maternità e il servizio domestico senza orari, la disponibilità illimitata ai bisogni della famiglia e assumeva un significato simbolico non trascurabile. Le donne se ne servivano, infatti, per manifestare ciò che non potevano dire con le parole.
Il grembiule (sunale), nato per fini pratici, finì con il diventare un complemento essenziale dell'abbigliamento femminile.
Quando erano in cucina, le donne indossavano un grembiule di colore bianco, rigorosamente candido, mentre quando andavano nei campi a lavorare il colore del  grembiule era il nero.
Ma il grembiule era sempre presente, anche sul vestito della festa, in bella vista, c'era 'u sunale", di tessuto leggero in sintonia con la tinta della gonna, di valenza non solo decorativa ma anche fortemente simbolica: il grembiule era protezione del sesso, e, donato allo sposo, simbolo di possesso esclusivo da parte di quest’ultimo.
Il grembiule era anche chiamato, in dialetto salentino "nguccia irgògne" (copri vergogne), perché lo si considerava idealmente uno "scudo" posto a difesa delle parti intime. Ne è riprova il fatto che nessuna donna leale si sarebbe mai sognata di uscire da casa senza prima aver indossato il suo grembiule. Se avesse agito contrariamente, sarebbe stato come andare in giro nuda.
Se una ragazza nubile, accortasi che un bel giovanotto la stava guardando insistentemente, intendeva ricambiare tale interesse, nel sistemarsi il grembiule lo spostava verso destra, accettando, così, la corte del giovane e lo invitava a farsi avanti con i suoi genitori.
Il medesimo movimento, fatto però dalla parte opposta, cioè verso sinistra, era invece interpretato dagli antichi come mossa d'adescamento impudica e sfacciata.
Il grembiule poteva essere espressione di purezza, come sopra accennato, ma anche simbolo di ribellione.
Una donna superstiziosa, se convinta di essere oggetto di sguardi ostili, ripiegando le estremità del suo "ngùccia irgògne" formava le corna che, a suo dire, avrebbero allontanato le negatività.
Una contadina che avanzava verso il suo datore di lavoro con il grembiule arrotolato sui fianchi, trasmetteva un senso di insubordinazione e di rivolta. Se scoppiava una lite furibonda e la donna gettava la spugna, in segno di resa, nascondeva le mani sotto il grembiule. Ciò palesava uno stato di abnegazione totale e di afflizione.
Le donne tarantine, come un po' tutte le donne del sud, con quel pezzo di stoffa tenevano la propria femminilità al riparo da sguardi indiscreti, e tra le pieghe di quel pezzo di cotone bianco, nero o colorato racchiudevano tutta la loro essenza, tutta la loro vita, il loro patire e le loro rinunce.
Durante la loro vita,......... ma anche oltre..........
Il grembiule era presente anche quando andavano a messa.
Dopo la recita del Rosario, durante le litanie, all'invocazione tutte le donne presenti rispondevano "Ora pro nobis", sollevando contemporaneamente il grembiule.
"Il gesto nasceva dalla volontà di mutare in preghiera il quotidiano affanno, affinché si stabilisse una omologia propiziatoria, fra attese contadine e speranze cristiane.
Ci si serviva di tale indumento anche in occasione dei funerali. Se una donna aveva subito un lutto in famiglia, posava le proprie mani sul grembo esternamente al grembiule.
Se, invece, si recava alla veglia di un conoscente o se assisteva al passaggio di un corteo funebre per strada, poneva le mani intrecciate sotto il sunale, in posizione di preghiera.
La tradizione "grembiulesca", non perdeva la sua efficacia neanche nel mondo dei morti.
Le donne, nei secoli scorsi, venivano seppellite con il grembiule perché ciò significava presentarsi davanti a Dio il più coperte possibile e, quindi, in maniera casta. Tant'è che siccome "vigilantibus non dormientibus..." e "prevenire è meglio che curare", esse, quando avvertivano un possibile pericolo naturale (terremoto, uragano, alluvione), si affrettavano ad indossare i loro "sunale" in modo tale che, se per incidente fosse deceduta qualcuna di loro, non si sarebbe fatta trovare impreparata.
Nel caso in cui una madre e un figlio morivano insieme prima che il piccolo avesse ricevuto il  Battesimo, venivano messi in un'unica bara. Il neonato, adagiato sul ventre della donna, veniva coperto col suo grembiule. Le mani della donna, distese lungo i fianchi e non incrociate sul petto, reggevano i due lembi esterni del "sunale". Tale gesto, rappresentava allegoricamente la supplica rivolta dalla madre a Dio, affinché Egli non condannasse l'anima del figlioletto a vagare nel limbo in eterno.

martedì 22 maggio 2012

A’ curèscia


La cintura,  accessorio di abbigliamento nato dalla necessità di tener su i pantaloni che l’utilizzo e il tempo hanno ammantato di significati diversi e contrastanti.
La cintura era un mezzo  per impartire l’educazione a i figli usata come mezzo di correzione improprio, quanto inutile.
Quando la mamma diceva: Ci no’ a spicce u’ diche a ‘tanete  la situazione era tale da richiedere “mezzi” che la mamma non aveva… e siccome raramente questa frase sortiva i risultati sperati  spesso il padre era costretto ad intervenire e l’esordio era:
“Ci no’ a spicce me ‘lèv’a curèscia!....”
la frase intimidatoria che riusciva a fermare l’esuberanza dei bambini, ma non tutti e per i più grandi bisognava ripeterla ricordandone le conseguenze:
“Ci no’ a spicce me ‘lèv’a curèscia! .… e te fàzze le jamme crusciùle, crusciùle!”
ma a volte non bastava neanche questo e per gli irriducibili  prima o poi la temuta minaccia diventava “dolorosa” realtà.
A curèscia  era  quello che mancava alla mamma, per imporre il suo “potere/volere”,  per incutere timore, per educare….una sorta di “scettro del comando” ….. purtroppo molto spesso l’unico  mezzo  che decretava  il proprio ruolo di capo famiglia e di uomo da far valere con i figli e con la moglie quando non erano ubbidienti e sottomessi, ma anche con le bestie quando non volevano lavorare o non riuscivano a procreare, e con gli alberi che non davano frutti a cui venivano sferzati tre colpi di cinghia prima di decidere di spiantarli.
La cinghia non reggeva solo i pantaloni ma era più importante dei pantaloni perché il suo utilizzo colmava l’assenza, l’incapacità ma anche le insicurezze psicologiche dell’uomo.
Portare la cinghia era motivo di orgoglio, non averla era una grave umiliazione e non  perché potevano cadere i pantaloni ma perché un uomo senza cintura non incuteva più paura e perdeva ogni autorità. A volte però, da “simbolo di dominanza” si trasformava in pegno “simbolo della propria parola d’onore” …
Un vecchio detto raccomanda:
Cinca sciurnàta vo’ acchiàre  si face ‘a chiàzza pe’ cummàre (se vuoi lavorare prenditi la piazza per amante = era in piazza che si trovava lavoro)
Chi lavorava a giornata infatti, la sera, dopo una giornata di lavoro andava in piazza, dove passavano i caporali, i fattori, per reperire la manodopera da impiegare nelle terre e nelle masserie. Soprattutto l’inverno i padroni si facevano attendere, e il freddo rendeva l’attesa ancora più estenuante. Quando poi arrivavano, lentamente osservavano la loro merce di uomini abituati ad alzarsi col gallo e a coricarsi con le galline, ma soprattutto abituati a lavorare di zappa dall’alba al tramonto ed ora, come se non bastasse, costretti a stare in piazza a subire le intemperie invernali, nella speranza di essere ingaggiati per i lavori più disparati a con un salario bassissimo che col passare delle ore diminuiva sempre di più, ma qualunque salario consentiva di portare il pane a casa cacciando la fame  dalle loro case.
Ma le stagioni si susseguono, la ruota gira e così, arrivata l’estate e il tempo della mietitura quando non erano più i contadini ad elemosinare il lavoro, ma erano i padroni a rodersi il fegato sperando di trovare la manodopera necessaria per mietere il grano che giunto a maturazione poteva andare perduto per il maltempo o a causa di incendi.
Col calare della sera il salario aumentava, arrivando a vere e proprie contrattazioni. Succedeva che a volte chi era stato ingaggiato a prima ora, rimanesse in piazza e si proponesse a chi offriva un salario più alto, non mantenendo l’impegno preso col fattore che lo aveva ingaggiato prima che il giorno dopo si ritrovava con un lavoratore in meno.
Un atteggiamento poco corretto,  che poco si addiceva alle questioni d’onore del tempo in cui la parola data era sacra e inviolabile, ma si trattava di una vera e propria rivalsa contro lo sfruttamento e le umiliazioni subite e pertanto giustificato e molto praticato.
Per arginare i rischi delle defezioni sul campo di lavoro i fattori all’atto della contrattazione chiedevano, al lavoratore ingaggiato, un pegno: a’ curèscia pe capàrra … avete capito bene, i fattori prendevano le cinture dei neoassunti  dicendo loro:  …ci no s’appresènde s’ha chiànge!
Le cinture venivano restituite la mattina dopo quando si presentavano sul campo da mietere e, come avvisato, chi non si presentava la perdeva.
La gioia di aver trovato un lavoro per il giorno dopo era annullata dall’umiliazione di farsi vedere senza cintura dalla propria famiglia. La perdita della cintura rappresentava simbolicamente la perdita dell’essere e dell’autorità esercitata, e proprio basandosi sull’indispensabilità di questo accessorio che i fattori chiedevano in pegno a’ curèscia piuttosto di altri capi di abbigliamento, sicuramente più indispensabili ma meno importanti. Nessun aumento di paga avrebbe impedito al lavoratore di riappropriarsi di un pegno tanto rappresentativo.
Consegnata la cintura al fattore, ci si affrettava sostituirla con una cordicella, che preventivamente ogni lavoratore portava in tasca, che mestamente aveva il compito di sorreggere i pantaloni.
Appena entrato in casa mestamente si affrettava a dire:  “S’ha pigghiàte a’ curèscia pe capàrra!
Di rimando la moglie rispondeva: Megghie na sarcinàte de na scapuzzàte (meglio una tosatura che la testa mozza = meglio essere sfruttati che morire di fame).
I ragazzini notavano subito la cordicella che penzolava dai pantaloni del padre e prima che lo stupore si trasformasse in consapevolezza la voce della madre li riportava alla realtà sentenziando:
No ve sciàte preoccupànne ca’ dumàne  a’ curèscia torna e ci no’ vi stàte attinde canda pure! E mò scè curcàteve, ca ci curèscia manca u’ battepànne stè rèt’a porta!”