La cintura, accessorio di abbigliamento nato dalla necessità di tener su
i pantaloni che l’utilizzo e il tempo hanno ammantato di significati diversi e
contrastanti.
La cintura era un mezzo per
impartire l’educazione a i figli usata come mezzo di correzione improprio,
quanto inutile.
Quando la mamma diceva: Ci no’ a
spicce u’ diche a ‘tanete la situazione era tale da richiedere “mezzi”
che la mamma non aveva… e siccome raramente questa frase sortiva i risultati
sperati spesso il padre era costretto ad
intervenire e l’esordio era:
“Ci no’ a spicce me ‘lèv’a
curèscia!....”
la frase intimidatoria che riusciva a fermare l’esuberanza dei bambini,
ma non tutti e per i più grandi bisognava ripeterla ricordandone le conseguenze:
“Ci no’ a spicce me ‘lèv’a
curèscia! .… e te fàzze le jamme crusciùle, crusciùle!”
ma a volte non bastava neanche questo e per gli irriducibili prima o poi la temuta minaccia diventava “dolorosa”
realtà.
A curèscia era quello che mancava alla mamma, per imporre il
suo “potere/volere”, per incutere timore,
per educare….una sorta di “scettro del comando” ….. purtroppo molto spesso l’unico mezzo
che decretava il proprio ruolo di
capo famiglia e di uomo da far valere con i figli e con la moglie quando non
erano ubbidienti e sottomessi, ma anche con le bestie quando non volevano
lavorare o non riuscivano a procreare, e con gli alberi che non davano frutti a
cui venivano sferzati tre colpi di cinghia prima di decidere di spiantarli.
La cinghia non reggeva solo i pantaloni ma era più importante dei pantaloni
perché il suo utilizzo colmava l’assenza, l’incapacità ma anche le insicurezze
psicologiche dell’uomo.
Portare la cinghia era motivo di orgoglio, non averla era una grave
umiliazione e non perché potevano cadere
i pantaloni ma perché un uomo senza cintura non incuteva più paura e perdeva
ogni autorità. A volte però, da “simbolo di dominanza” si trasformava in pegno “simbolo
della propria parola d’onore” …
Un vecchio detto raccomanda:
“Cinca sciurnàta vo’ acchiàre si face ‘a chiàzza pe’ cummàre (se vuoi lavorare prenditi
la piazza per amante = era in piazza che si trovava lavoro)
Chi lavorava a giornata infatti, la
sera, dopo una giornata di lavoro andava in piazza, dove passavano i caporali,
i fattori, per reperire la manodopera da impiegare nelle terre e nelle masserie.
Soprattutto l’inverno i padroni si facevano attendere, e il freddo rendeva l’attesa
ancora più estenuante. Quando poi arrivavano, lentamente osservavano la loro
merce di uomini abituati ad alzarsi col gallo e a coricarsi con le galline, ma soprattutto
abituati a lavorare di zappa dall’alba al tramonto ed ora, come se non
bastasse, costretti a stare in piazza a subire le intemperie invernali, nella
speranza di essere ingaggiati per i lavori più disparati a con un salario
bassissimo che col passare delle ore diminuiva sempre di più, ma qualunque salario
consentiva di portare il pane a casa cacciando la fame dalle loro case.
Ma le stagioni si susseguono, la
ruota gira e così, arrivata l’estate e il tempo della mietitura quando non
erano più i contadini ad elemosinare il lavoro, ma erano i padroni a rodersi il
fegato sperando di trovare la manodopera necessaria per mietere il grano che
giunto a maturazione poteva andare perduto per il maltempo o a causa di
incendi.
Col calare della sera il salario
aumentava, arrivando a vere e proprie contrattazioni. Succedeva che a volte chi
era stato ingaggiato a prima ora, rimanesse in piazza e si proponesse a chi
offriva un salario più alto, non mantenendo l’impegno preso col fattore che lo
aveva ingaggiato prima che il giorno dopo si ritrovava con un lavoratore in
meno.
Un atteggiamento poco corretto, che poco si addiceva alle questioni d’onore
del tempo in cui la parola data era sacra e inviolabile, ma si trattava di una
vera e propria rivalsa contro lo sfruttamento e le umiliazioni subite e
pertanto giustificato e molto praticato.
Per arginare i rischi delle
defezioni sul campo di lavoro i fattori all’atto della contrattazione
chiedevano, al lavoratore ingaggiato, un pegno: a’ curèscia pe capàrra … avete capito bene, i fattori prendevano le
cinture dei neoassunti dicendo
loro: …ci no s’appresènde s’ha chiànge!
Le cinture venivano restituite la
mattina dopo quando si presentavano sul campo da mietere e, come avvisato, chi
non si presentava la perdeva.
La gioia di aver trovato un lavoro
per il giorno dopo era annullata dall’umiliazione di farsi vedere senza cintura
dalla propria famiglia. La perdita della cintura rappresentava simbolicamente
la perdita dell’essere e dell’autorità esercitata, e proprio basandosi sull’indispensabilità
di questo accessorio che i fattori chiedevano in pegno a’ curèscia piuttosto di
altri capi di abbigliamento, sicuramente più indispensabili ma meno importanti.
Nessun aumento di paga avrebbe impedito al lavoratore di riappropriarsi di un
pegno tanto rappresentativo.
Consegnata la cintura al fattore, ci
si affrettava sostituirla con una cordicella, che preventivamente ogni
lavoratore portava in tasca, che mestamente aveva il compito di sorreggere i
pantaloni.
Appena entrato in casa mestamente
si affrettava a dire: “S’ha pigghiàte a’ curèscia pe capàrra!”
Di rimando la moglie rispondeva: Megghie na sarcinàte de na scapuzzàte (meglio
una tosatura che la testa mozza = meglio essere sfruttati che morire di fame).
I ragazzini notavano subito la
cordicella che penzolava dai pantaloni del padre e prima che lo stupore si
trasformasse in consapevolezza la voce della madre li riportava alla realtà
sentenziando:
No
ve sciàte preoccupànne ca’ dumàne a’
curèscia torna e ci no’ vi stàte attinde canda pure! E mò scè curcàteve, ca ci
curèscia manca u’ battepànne stè rèt’a porta!”
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