domenica 20 novembre 2011

'U Rascjùle

Avevo quattro anni, più o meno, quando una mattina mi svegliai con un occhio gonfio e dolorante che non riuscivo ad aprire neanche dopo un'energica  stropicciata che mi fece aumentare il dolore. Spaventata mi alzai e correndo andai in cucina a cercare "la mamma" per capire cosa mi era successo. Lì trovai anche la nonna che subito mi disse:
<Vidime c'è tène a piccènna mejie!> e dopo avermi osservata commentò:
<Ah! Muscitàzza! t'ha 'sute 'u rascjùle (l'orzaiolo), allora a quarcune e viste 'u cule!>

Non avevo capito niente! Mentre tutti gli altri intorno a me se la ridevano, cominciai a piangere. Le parole di mia nonna avevano aggiunto alla mia paura iniziale, un senso di colpa per qualcosa che non avevo fatto, e un senso di rabbia perchè non avevo capivo nulla e loro ridevano della mia sofferenza!

Intanto mia madre aveva preparato già della camomilla e appena pronta mi tamponò l'occhio malato che piano piano riuscii ad aprire. Rassicurata dal trattamento indolore e rincuorata da quel miglioramento, smisi di piangere e mi avvicinai a mia nonna dicendo:
<Nonna, te lo giuro io non ho visto niente!>
e mia nonna mi sorrise e mi disse che lo sapeva e che mi avrebbe fatto passare la bùa.

Nel pomeriggio venne pure la nonna materna a vedere come stava 'a piccènna...
Poi le nonne si misero a parlare scambiandosi tutto ciò che sapevano sul rascjulo e decidere cosa fare con me.

Siccome tutti i riti vanno praticati la sera dopo il tramonto, quando non c'è il sole, nel tardo pomeriggio, mentre mia mamma mi teneva in braccio, ad un certo punto vidi comparire mia nonna con ago e filo...
pensai subito che volessero cucirmi l'occhio malato e scoppiai a piangere, gridando e scalciando!(ero terribile!!!)
La nonna cominciò a spiegarmi che l'ago non doveva essere usato per cucire l'occhio, ma che bastava solo passarlo davanti all'occhio malato, facendo finta di cucire, il rascjulo temendo quella minaccia, dopo la prima sera, non cresceva più, la seconda sera guariva, e la terza sera scompariva, scappando via spaventato.
Incantata da questa storiella, avevo smesso di piangere e la nonna tentò di cominciare "il rito" e mi chiese: <C'è tène a piccènne?>
e io, singhiozzando: < 'u rascjule> 
e loro: < e mò 'u cusìme > 
appena presero ago e filo facendo il gesto di cucire, io ricominciai a piangere!

Visto che quel rito mi spaventava e non avrebbe avuto effetto perchè mi agitavo troppo, decisero di cambiare...
presero una bottiglia di olio d'oliva e mi dissero che dovevo guardare dentro, appoggiando l'occhio malato sul collo della bottiglia.
La cosa mi sembrava fattibile, ma stavo ormai piangendo a singhiozzi e lacrimoni che avrebbero riempito la bottiglia! Insomma anche questo rito non si poteva fare!
Le nonne decisero che avrebbero riprovato la sera dopo e misero a posto ago e filo e la bottiglia dell'olio.

Tornata la normalità, anche io, sempre in braccio a mia madre, cominciai a calmarmi. Allora mia madre si tolse la fede nuziale e me la passò per tre volte sull'occhio, facendo il segno della croce...
...mi addormentai.
La mattina dopo l'occhio era sgonfio! Sarà stata la camomilla, la fede d'oro di mia madre, l'olio d'oliva o la paura di ago e filo...il rascjulo era sparito!

Strane credenze con rimedi ancora più strani, misti tra magia e religione. Preghiere recitate manipolando gli oggetti più impensati. La medicina classica popolare utilizza elementi religiosi, mitologici e perfino rituali magici, unendo il razionale all'irrazionale. Efficace o no? Mah! chi lo sa? A volte funziona! Ma è bello raccontarle, ma la cosa più importante  è fermare queste testimonianze, per sottrarle all'oblio del tempo.

lunedì 14 novembre 2011

Oro verde...

Sole, nuvole, acqua o  vento la campagna è sempre in fermento….
…no, non è una poesia anche se la rima c’è, casuale,  anche se l’argomento che voglio trattare di poeti ne ha ispirati e non pochi, la nostra terra, che oltre ad ispirare gli artisti bucolici, è una vera e propria miniera a cielo aperto del metallo più nobile, l’oro.
Ho già parlato dell’ “oro rosso”  dei nostri vigneti e dell'oro giallo” dei nostri campi di grano e ora tocca all’”oro verde”  dei nostri uliveti – alberi maestosi e secolari, dai tronchi scolpiti dal tempo, che sfidano le stagioni e nei giorni senza sole, rischiarano con l’argento delle loro foglie.
Sull’indiscusso valore di questi alberi e dei loro frutti, una leggenda narra di
…un contadino che aveva ricevuto in eredità un uliveto. Gli toccava zappare, arare per mantenere pulito il terreno, e otteneva le olive che con la sua famiglia usava consumare durante i pasti frugali.
Lavorava e si dannava, maledicendo quella misera eredità. Una giorno mentre lavorava nel campo, si riposò addormentandosi sotto un ulivo. Sognò una fata che sotto una macina schiacciava pepite d’oro. La fata gli chiese perché fosse così triste e disperato e dopo aver sentito le sue lamentele, si mise a ridere e gli disse:
Furìse, furìse tinìte l’oro e nonge ‘u canuscìte!
Così dicendo la fata svanì. Il contadino si svegliò e vide sull’albero le olive, che ormai mature al punto giusto trasudavano olio, e alla luce del sole sembravano pepite d’oro, le stesse che aveva visto sotto la macina della fata. Si organizzò, raccolse le olive e le macinò come aveva visto fare alla fata e ottenne così l’olio in cui inzuppò il pane e si accorse che era buonissimo. Poi cominciò ad usarlo in ogni minestra, scoprendo che ogni cosa con l’olio acquistava sapore.
La notizia si sparse per tutto il paese e il contadino cominciò a vendere l’olio diventando così ricco in poco tempo. La fata aveva avuto ragione, quegli alberi e quelle olive erano la sua miniera d’oro.


Questa leggenda spiega perché il potenziale di ricchezza delle famiglie si misurava in alberi d’ulivo e perché ogni albero d’ulivo è sacro e custodito come un bene prezioso.

Il vecchio detto: “addò ‘ppènne ‘rrènne” –  è riferito agli alberi da frutto posti a confine di solito estendono i loro rami nei terreni confinanti,  i proprietari possono raccoglierne tranquillamente i frutti che si affacciano sul loro campo.
Solo per un albero questa usanza non è valida, per l’olivo – in questo caso è il proprietario dell’albero che ha il diritto di entrare nel terreno confinante per raccogliere le olive.

Gli ulivi coprivano le nostre campagne e le coprirebbero ancora se la Serenissima non ne avessero scoraggiato la coltivazione, offrendo per un litro di olio una somma di molto inferiore a quella offerta per un litro di vino. Fu così che i vigneti strapparono all’ulivo i terreni migliori.
Ma nonostante le limitazioni, la produzione di olio è stata sempre abbondante e l’olio era così pregiato che si esportava in tutto il mondo. Per questo, prodotti tipici furono per secoli le botti, prodotti artigianali di bottai e maestri d’ascia perchè l’olio imbarcato, al freddo si solidificava ed era difficile venderlo a litri. Fu così che  i bottai inventarono un particolare tipo di botte costruita con fasciame leggero e quindi dal costo molto basso; quella che oggi chiameremmo una “ botte a perdere”.
Quando la nave giungeva a destinazione si segava la botte e l’olio solidificato si vendeva a chili anziché a litri e il problema era risolto.
La vite, il grano, gli ulivi, da sempre presenti sul nostro territorio – principale fonte di alimentazione ma anche di reddito per le famiglie e per questo, entrati a far parte  della cultura popolare
In particolare l’olio, che richiedeva tanto lavoro e per questo prodotto di grande valore.
È nominato in proverbi e modi dire, ma è largamente usato anche nelle pratiche mediche popolari – come per curare u' rasciule... e nella scaramanzia – come per l'affascene.
Ma l’olio era importante anche perché alimentava i lumi a olio che illuminavano le nostre case prima dell’avvento dell’energia elettrica – per questo si diceva lume no luce ci uègghie no arde –  senza olio il lume non fa luce, come a dire:  senza denari non si canta messa… modi dire che rimandano alla pratica delle regalie ma anche delle “bustarelle”...
Ad olio ardevano anche le lampade votive nelle chiese.
La fame di periodi di guerra e dopoguerra spingeva la gente a rubare l’olio dalle lampade votive … a tal proposito si raccontare un episodio che si tramanda di generazione in generazione perché ha dato origine al detto: Citte tu, ca mammete conde……si racconta che i devoti della Parrocchia di San Giuseppe portavano in chiesa l’olio necessario per tenere accesi i lumini. Era un dono importante, dato che la maggior parte riusciva a malapena a procurarsi pane e latte… Invece … a fine giornata il sacrestano della chiesa, passava a spegnere gli stoppini… iniziava dalla statua  della Madonna col Bambino e diceva:
“Madonna mejie ci tu no me dice niente jie me pigghie nu picche de uègghie”
Avendo come risposta il silenzio della statua che lui interpretava come consenso, raccoglieva l’olio dei lumini, ringraziava la Madonna e andava a  condire il suo piatto di  minestra.
Il parroco si accorse dell’ammanco e una sera si nascose in chiesa per capire cosa succedesse, così sentì il sacrestano che davanti alla statua della Madonna come tutte le sere diceva: “Madonna mejie ci tu no me dice niente jie me pigghie nu picche de uègghie”
Il parroco pronto disse: “No! Non voglio!”
Il sacrestano rimase sconcertato, ma poi avendo riconosciuto una voce maschile, si rivolse al Bambinello dicendo: “Citte Tu ca Mammete  conde!”

Frase che poi è entrata nell’uso comune per apostrofare chi parla senza consenso o cognizione.
In questo periodo nei campi tutto ruota intorno agli ulivi, arrampicati sui rami più alti o inginocchiati sulle loro radici, grandi, piccoli, giovani o anziani,  raccolgono  le olive. Il processo di trasformazione delle olive in olio è lungo a laborioso.  Inizia con la raccolta:
De  Santa Riparata  ogni alìa è ogliata – L’8 ottobre le olive sono già mature al punto giusto per essere raccolte.
Prima dell’avvento delle macchine la raccolta delle olive vedeva impegnati uomini, donne, giovani, anziani e bambini…intere famiglie intorno a questi alberi, dall’alba al tramonto.
Si iniziava col fare “l’era all’arvule”, che non è uno scioglilingua, ma la pulitura di tutta la zona sotto gli alberi, per una circonferenza che contenesse la chioma, lasciando un margine, un ciglio, che doveva contenere le olive “ca scutulavene” (che cadevano quando si scuotevano i rami). Naturalmente durante la battitura le olive cadevano anche fuori dall’era…. Non importava, tanto si dovevano raccogliere tutte “le fitte” (quelle che cadevano nell’aia) e “le cigghiare” (quelle che cadevano oltre il ciglio).

Un lavoro duro, fatto di mani e piedi infreddoliti e schiene spezzate…. Ma fatto con dedizione e allegria, intonando i canti a “botta e risposta”, canti che parlavano di amori nati nelle campagne tra femmene e uemmene, ma anche di sfruttamento e di ‘ntere (le donne che guidavano le squadre di femmene che lavoravano nei campi)...
Alije, alije,
come s’accogghiene chiste alije...
S’accogghiene a vvune a vvune
Pè fà despijette alle padrune.
S’accogghiene a ddòje a trète
Pè fa dispijette a ‘ttèje.


(da 'U Breviarie d'a nonne di Claudio de Cuia)

Man mano che si raccoglievano le olive venivano portate nei magazzini, dove venivano messe per terra, “sparpagghiate” , perché  dovevano arieggiare per evitare la formazione di muffe.
Poi venivano pulite dalle foglie e messe nei sacchi per essere portate a “’u trappite” (al frantoio).
Un lavoro continuo, a catena di montaggio, dove ognuno aveva il suo compito.
E fin’a mò no è niente!...

Gli addetti ai frantoi per mesi vivevano segregati. Per questo la condizione dei frantoiani era associata a quella dei marinai, perché come loro mancava mesi e mesi da casa. Il capo del frantoio al pari del capitano di una nave aveva potere assoluto sulla comunità, era chiamato nachirio, che in greco indica chi “ha in mano la nave” - il capitano, il nostromo.
I frantoi migliori erano scavati nel tufo. Erano realizzati sottoterra in quanto la facilità di scavo rendeva più conveniente il lavoro, al contrario della sua costruzione in superficie; ma anche perché la temperatura nei trappiti  doveva essere stabile e calda per favorire il flusso dell'olio nel momento in cui le olive, dopo essere state macinate, dovevano essere sottoposte alla torchiatura e allo scarto della sentina. Anche per questo motivo si preferiva orientare l'ingresso verso sud, per ripararsi dalla tramontana.
I locali erano riscaldati dai lumi che per illuminare ardevano giorno e  notte,  dalla fermentazione e dal fiato degli animali, e se questo non bastava venivano portati anche “le frascère cu ‘a cinìse” ( bracieri con la cenere calda) .
La stanza principale era caratterizzati da grandi torchi di legno e da vasche di molitura ricavate nella pietra viva.  Le grandi pietre erano azionate da nu’ ciucciariedde che doveva girare continuamente per azionare la macina. Il lavoro era a ciclo continuo come sulle grandi barche da pesca: notte e giorno da novembre a febbraio. Il nachirio dirigeva tutto il lavoro dei trappitari, i manovali da lui guidati erano almeno cinque, tra cui un ragazzino  che non superava i 15 anni, il quale svolgeva le mansioni minori: fare la spesa, portare da bere, cucinare, pulire e dar da mangiare agli animali.
Era necessario produrre un buon olio affinché si potesse piazzare bene sul mercato e il nachirio, con grande maestria, organizzava il lavoro di tutti servendosi della sua esperienza. Dopo aver fornito le direttive a ciascuno dei dipendenti, non se ne stava con le mani in mano, al contrario lavorava con lena e, allo stesso tempo, vigilava sull'operato degli altri.  La sua mansione principale era quella di "tagliare" l'olio. Egli eseguiva personalmente tutta l'operazione che consisteva nel purificare l'olio, il quale, essendo meno pesante dell'acqua, saliva a galla dopo essere stato filtrato.
U’ trappìte era  tutto per chi vi lavorava. Questi uomini si recavano nelle loro case solo per le feste  dell'Immacolata, di  Natale e per Capodanno. Nei trappiti il momento di pausa e di ristoro era la cena, a fine giornata, ‘u nachirio prendeva dell’olio,  e poi benediceva con un segno di croce il cibo: legumi alla pignata, cotti al fuoco delle zolle di sansa, e verdura lessa condita con abbondante olio – poi c’era  ‘A zuppa d’u trappitare” che prima ancora che una pietanza era un documento della nostra storia e dei suoi anonimi protagonisti. Era una zuppa di fave secche lessate a fuoco lento e broccoli lessati con foglie di alloro pomodori prezzemolo e sale, il tutto servito su fette di pane abbrustolito passate con l’aglio e naturalmente intrise nell’olio.
Quanta storia e quante storie seppellite in questi trappiti bagnati dall’olio e dal sudore di tutti questi lavoratori dagli occhi stanchi ma dal cuore palpitante.
I vecchi frantoi non esistono più, sono diventati: musei della civiltà contadina, ristoranti, ma anche luoghi per incontri socio-culturali…
…E quelli rimasti abbandonati si crede che siano il luogo di ritrovo delle streghe…
In ogni modo tra poco avremo l’olio novello, dal sapore delicato e dal profumo intenso pronto per indorare le nostre pettole.


venerdì 11 novembre 2011

Cacciàte de casa, ‘Mbriache, Curnùte, e … cu ‘a giacca a' smerse!

La festa di San Martino l’11 novembre è una data che ricorda alcuni eventi non proprio piacevoli... quali? ... continuate a leggere e li scoprirete.

- Cacciàte de case - perché questo giorno segnava la fine dell’annata agraria prima dell’arrivo dei freddi invernali. In questa data scadevano i contratti di mezzadria e i contadini con le loro famiglie, dovevano lasciare la loro casa nelle masserie e caricato il loro piccolo mondo suse nu' traìne, si incamminavano per trovare sistemazione altrove.


- ‘mbriache - questo non ha bisogno di spiegazione perché tutt’oggi , osservando il detto che dice che a San Martino ogni mosto è vino, tutti sappiamo che è il momento di assaggiare il vino novello. San Martino patrono del vino dei vignaioli e degli ubriachi….infatti una leggenda racconta che:
San Martino era un grande estimatore del nettare di Bacco e spesso e volentieri si ubriacava.
Una sera d'inverno faceva molto freddo e San Martino lasciò a casa la moglie incinta per andare in una cantina dove si ubriacò.
Mentre egli tornava a casa, decise che per non dare fastidio alla moglie avrebbe dormito in cantina. Entrò giù nella sua cantina e si accovacciò in una nicchia scavata dentro il muro proprio dietro una grande botte., ma a causa del freddo, la notte morì!
Arrivato in Paradiso, Dio vedendo che lui era morto per troppa premura nei confronti della moglie, lo fece santo.
La moglie lo aspettò invano, di lui non ebbe più notizie, ma da quel giorno si accorse che  da quella grande botte che lei teneva in cantina, più vino toglieva e più ne ritrovava. La notizia si propagò a persino il Prete lo seppe e andò a casa della vedova  per vedere quel miracolo,  osservò bene la botte e si accorse del corpo del santo dentro la nicchia e vide che dalla sua bocca era spuntata una vite e questa vite era entrata dentro la botte. Da questo ramo cresceva continuamente l’uva e diventava vino.
Il Parroco decretò il miracolo e su quella cantina vi costruirono una Chiesa.


Ecco perché L’11 novembre si assaggia il vino novello accompagnato da castagne e dai nostri piatti tipici.




Curnute - aggettivo che non è stato sempre un dispregiativo.
Nell’antichità le corna simboleggiavano forza, coraggio, ardore e virilità. Nella tradizione greco-romana e’ simbolo di fecondita’ e felicita’.
Molte divinità e molti personaggi potenti venivano rappresentati con  un bel paio di corna più o meno grandi sulla fronte; un esempio è il Mosè di Michelangelo e le “corna d’oro” del dio Bacco.
Molti guerrieri in varie contrade indossavano elmi con le corna, e più erano importanti, tanto le corna sui loro copricapi erano imponenti.
Poi ad un tratto l’epiteto “cornuto” è diventato un insulto, da tanta altezza nella tradizione mitologica popolare le corna sono decadute a indicare la vittima del tradimento.  E il protettore dei mariti (cornuti) è San Martino. 
Una leggenda vuole che:
"Martino era gelosissimo, anche di sua sorella. Era così geloso che per evitare che qualcuno approfittasse dell’ ingenuità della fanciulla, preferiva portarsela sulle spalle. Ma un giorno la ragazza adducendo l’impellenza di un bisogno fisiologico, scese dalle spalle di Martino e andò dietro un cespuglio dove l’aspettava il suo fidanzato. Quando ritornò Martino nel prenderla sulle spalle si accorse che era diventata più pesante e capì che la sorella era riuscita a sfuggire al suo controllo ed era rimasta incinta."


E' curioso sapere dell'esistenza di piatti della tradizione popolare, tipici di questa ricorrenza…
 - a' sciòtta – una zuppa di verdure, principalmente zucchine, patate e melanzane, pomodori, peperoni ….
Le patate e le zucchine sono ortaggi che mantengono a lungo il calore, non si raffreddano facilmente, quindi le mogli potevano cucinare la mattina di buon’ora poi uscire per dedicarsi ad attività più alternative molto più divertenti, e al ritorno, servire ai mariti un piatto ancora caldo…

- a' bbinchiamariti - Una frittata a base di uova, formaggio, pangrattato, farina, prezzemolo… tagliata a fette e cotta in un sugo lento di pomodoro.  La frittata triplicava di volume e diventava soffice e gustosa.
Pochi e semplici ingredienti in grado di appagare la fame dei mariti che ritornavano dai campi… ma a conferma dell’eterno legame tra sesso e cibo, una moglie infedele nascondeva le sue scappatelle con scuse legate alla preparazione del piatto: le mancavano o le uova o il prezzemolo o la farina e per questo doveva uscire per procurarsi tutto il necessario; assenze che il marito non esitava a giustificare dopo essersi leccato i baffi per la soddisfazione.
Il nome di questo piatto infatti mette in risalto la credulità degli uomini, non solo per la soddisfazione del gusto ma anche per la scorpacciata di bugie che la moglie gli serviva come verità con contorno di “cicereamuedde”  (vezzi, coccole ….frizzi e lazzi)
E quando i mariti non rinunciavano al piacere di una spaghettata allora era tempo di “pasta ‘ndrutulate
La progenitrice dell’odierna pasta e burro -  “ la pasta dei cornuti per antonomasia.

 - a giacca alla smerse - perchè un’usanza goliardica vuole che i potenziali cornuti vadano in giro con la giacca voltata per il verso della fodera  … perché? 

Beh! perchè ai fedifraghi capita, per la fretta,  di indossare gli indumenti a rovescio....

perchè credenza popolare vuole che indossare un indumento a rovescio protegga dalle malelingue e allontani le dicerie...

perchè usanza goliardica vuole che  i “potenziali cornuti “ vadano in giro con la giacca voltata per il verso della fodera a fare gli auguri agli amici, per sdrammatizzare “le corna” facendo capire che tutte le cose, come la giacca,  possono essere accettate … anche alla rovescia.

A' fère de le ciuccie

L'  11 novembre una data famosa per il   vino,  per  le giacche rivoltate e mariti cornuti... ma  è una data importante anche per gli ASINI ... si avete letto bene, parliamo di ciucci.
L'asino  ha sempre accompagnato la vita dell’uomo, aveva un ruolo importantissimo nella civiltà contadina aiutava l’uomo nel duro lavoro,    trainava carri e aratri, portava pesi, girava macine, forniva latte, ma era anche un compagno di vita.  Costava meno e lavorava meglio di un cavallo, per questo era considerato un bene prezioso, tanto che spesso la sua stalla era una stanza della casa. Chi possedeva un asino era un privilegiato  ed chi non lo aveva, cercava di risparmiare per poterselo comprare il possesso di un asino era fondamentale, tant’è che s’insegnava anche ai  piccoli, quando facendoli dondolare sulle gambe si cantava loro la filastrocca:

oppe, oppe cavadduzze
ca ma scè a Munteiase,
m’ha ‘cattà nu’ belle ciuccie
oppe, oppe cavadduzze

Era indispensabile avere il ciuccio e per procurarselo bastava andare alle fiere che si tenevano nei vari paesini, che una volta erano prettamente agricole con una vasta esposizione di animali mucche, buoi, cavalli e ciucci.
Anche la Fiera Pessima di Manduria era detta  a “fèra de li ciucci”
Ma la città famosa per i suoi ciucci era ed è  Martina Franca, dove in occasione dei festeggiamenti del Santo Patrono, San Martino, si svolge la fiera in cui venono esposti bellissimi esemplari di asino murgese.

L’importanza del ciuccio e l’accanimento del fato sono i soggetti preferiti da molti detti popolari:
A ‘u ricche le more a’ mugghiere, a u’ puvirijdde le more u’ ciuccie
Il povero è sempre quello più colpito dalla malasorte…. Al ricco muore la moglie che sperperava le sue ricchezze – al povero muore l’asino fonte (a volte unica) del suo sostentamento.
Morale: il ricco dopo la morte della moglie sarà più ricco e il povero dopo la morte del ciuccio sarà più povero.
Un animale umile, affettuoso e fedele dalle doti contrapposte:

-paziente e irascibile - le ciuccie s'arràiene e le varrile se squascene

-Ignorante e saggio  - megghie nu ciuccie vive de nu miedeche muerte

–  ostinato e mansueto -   No ne vò acqua la ciuccia –  oppure – quanne u’ ciuccie no vò beve è inutile ca fìsche
perché se un asino decide di non fare qualcosa è inutile insistere tant’è che
 a lavà ‘a càpe a ‘u ciuccie se perde acqua lissìa e sapòne,  perchè
ci nasce ciuccie no po murè cavàdde – insomma quanne ciuccie no vò camìne avòglie ca’tire  -

a tal proposito è bello ricordare la storiella di " un padre e un figlio che erano andati a lavorare in campagna con il loro asino. Stavano lavorando di gran lena quando ad un certo punto  l’asino s’impunta e non va più avanti. Il padre comincia a bestemmiare e a tirare le redini per incitare l’animale a proseguire, tirava con tanta rabbia che la capezza strozzava l’asino costringendolo ad una smorfia di dolore, il  figlio se ne accorse ma non capì e gridò al padre:
Tira ta’ ca  ‘u ciuccie stè ride!"


Povero ciuccio! Ma si sa che ragghie de ciuccie nònge arrivene ‘nciele

Rappresenta la ricchezza dei poveri, e come viene ricordato da alcuni proverbi fa tanto e si accontenta di poco:
‘u ciuccie porte vine e bève acqua - come bestia da soma, l’asino trasporta di tutto e in cambio chiede solo un po’ di fieno e acqua
'U piacere du ciucce jè a gramegne – non conoscendo le cose buone, il ciuccio si accontenta digli scarti.

Per quanto riguarda il lavoro, l’asino è davvero insuperabile tant’è  che di un uomo che lavora tanto si dice che  fatìe come nu ciuccie  o  che  è nu ciuccie de fatìe.
E’ un animale che fa tutto quello che vuole fargli fare il padrone  anche quando non è d’accordo -  attacche u’ ciuccie do’ vole u’ padrùne

Per monito alle donne vanagloriose si usa raccontare la storia di un giovane signorotto, sfaticato di razza, che si innamorò di una popolana ma quando la chiese in sposa questa rispose:
Cì fatìe come nu ciuccie campe da signore, ma ci fatìe da signòre, mangie come le ciuccie.

Per quanto riguarda il lavoro l’asino non ha eguali, è un maestro nel vero senso della parola!
Fu un asino ad insegnare ai contadini a potare la vigna.
Una volta  non si potava la vite, ma i grappoli erano poveri e facevano un vino deboluccio.
Un padrone distratto legò  il suo asino ad un palo della vigna. La bestia, mentre il contadino zappava, si mise a rosicchiare una serie di tralci spuntandoli. L’uomo quando si accorse  preso da tutte le furie bastonò il povero animale. Ma l’anno successivo, in autunno, vide che quei tralci cimati dall’asino avevano fatto dei bellissimi grappoli mai scorti prima.
Al termine della vendemmia, legò nuovamente l’asino al palo della vigna, ma l’animale, dotato anche di una forte memoria ricordandosi le bastonate se ne guardò bene dal mangiare la vite.
Il contadino cercò di fare come aveva fatto l’animale e imparò a  tagliare i tralci della vite, ma ... U’ prime putatòre fu nu’ ciuccie.
Probabilmente la potatura della vite era cosa facile per l’animale preferito, nonché mezzo di trasporto di Dionisio e di suo figlio Priapo col  l'asino condivideva virili analogie.

L’asino è  bravo per i lavori grossolani ma non per quelli di precisone, tant’è che di un barbiere poco esperto si dice che è nu scorciaciuccie.

Oltre che nella precisione, deficita anche nelle buone maniere. Quando qualcuno regala qualcosa per usarla personalmente si dice che U’ ciuccie porte a pagghie e u’ ciuccie s'a sparpagghie
Ma a volte gli uomini sono più maleducati di un ciuccio. Quando qualcuno arriva e non saluta si dice che pure nu ciuccie quanne acchie nòtre ciuccie, ragghie.


Prima dell'avvento del W.C. depositario dei bisogni fisiologici era il "cantero" detto anche "prìse" o "zi' Peppe" che era anche il nome con cui veniva chiamato chi passava per i vicoli con un asinello che trainava a carrìzze in cui venivano svuotati i canteri.

Si racconta che u ciuccie di zi peppe non era accudito bene ed era malandato tanto che  se una persona piena di acciacchi si dice che è come u' ciuccie de zi peppe, cu 99 male e a coda fracete...

Si racconta che un giorno zi peppe riuscì a vendere il suo ciucciarello e qualche tempo dopo si recò a Martina per comprarsi un altro ciuccio. Mentre girava per la fiera sentì un raglio che conosceva, si girò e vide il suo  asinello che ripulito e bardato a dovere era irriconoscibile, si avvicinò e accarezzandolo gli sussurrò:  fatte accattà da ci no te canòsce   frase usata verso chi ostenta essere ciò che non è.


mercoledì 2 novembre 2011

Pensieri in rima ...

A TOMBA ABBANDUNATE

Stamatìne m’hagghie azàte de prim’ore
E hagghie sciute dritte a ‘u cemetere.
M’hagghie sunnàte attaneme ca me diceve:

<…ma dimme tu de me te n’è scurdàte?
A tombe meije jè totta gnurecate,
le fiure s’honne fatte sicche sicche
e minz’a ste tombe profumate
pare ca so’… n’anema abbandunate.
U’ sé da quanda tijembe ca t’aspette?
Jè quase n’anne, ma tu nò te recuerde…
Ma cè ste aspitte ‘u giurne de le muerte
Pe me purtà nu fiore?...
O tenche tuerte?...>

Papà, stanotte tu m’è maltrattate
Ma è fatte bbuene, l’hagghie meretàte.
E viste quanta fiure t’hagghie annutte?
…Fra doije, tre giurne, te le cange tutte!
               

                                                     Antonio Bruno

martedì 1 novembre 2011

'U cùnzele


In questi primi giorni di novembre è usanza ricordare i defunti. Giorni tristi in cui rievochiamo il lutto ed uno dei momenti di elaborazione e superamento del lutto è ... 

U' cùnzele, ossia il pranzo consolatorio offerto da parenti e amici, alla famiglia colpita da un lutto.
Nella casa colpita dal lutto, per rispetto del defunto, bisognava interrompere tutte le attività quotidiane, la tradizione impediva che per almeno una settimana si accendesse il fuoco, e il digiuno poteva essere interrotto solo dal cibo portato dall'esterno da parenti e amici. 
U' cùnzele offriva una delle rare occasioni in cui si cucinava la carne bollita ... con àccie (sedano), putresìne (prezzemolo), alàure e cipòdde (alloro e cipolla) e pastunàche (carote).
Nella società contadina l'uso della carne era limitato a poche occasioni, e quasi sempre si utilizzava la gallina, che veniva ammazzata solo se aveva scovato (non produceva più uova).
Oltre al brodo, facevano parte del "cùnzele" anche fritture di pesce, uova, formaggi, taralli e vino.... erano simili a conviti nuziali. Mangiare in compagnia era segno di superamento del lutto, durante i cùnsoli non mancavano risate e canti, considerati come la volontà disperata di far trionfare la vita sulla morte. Si mangiava e si beveva del vino alzando il bicchiere dicendo: <Paradìse a jdde e salute a nùje!>
E in tutto questo non vi era nulla di contraddittorio.
Il banchetto funebre esigeva alcune regole:
- niente di ciò che avanzava doveva tornare indietro, poichè si credeva che col cibo si sarebbe portato fuori anche il dolore;
- le stoviglie non dovevano essere lavate a casa del defunto, poichè le attività domestiche avrebbero impedito al defunto di trovare il giusto riposo, e ai sopravvissuti di trovare la rassegnazione.