lunedì 12 dicembre 2011

Santa Lucia e le Calennule

Oggi, 13 dicembre, si festeggia Santa Lucia, un'altra data importante nel calendario natalizio...e non solo.
In molti paesi la Santa viene festeggiata e porta doni ai bambini.
Per la tradizione popolare Santa Lucia è festeggiata come protettrice della vista. Quando si smarrisce qualcosa è a lei che ci si rivolge:
" Santa Lucia cù l'uecchjie pizzute, famme acchiare le cose perdute " 
(Santa Lucia dagli occhi aguzzi, fammi trovare le cosa perdute) .
Ricordo un proverbio che recitava mia nonna (di Lizzano):
"Te Santa Lucia 'ncurtesce la notte e 'llunghesce la tia"
 (a Santa Lucia si accorcia la notte e si allunga il giorno).
Sempre con riferimento all'aumento delle ore di luce si dice anche:

“Da Sanda Lucie ‘nu passe de jaddine”
(di Santa Lucia un passo di gallina - riferito all'allungarsi dell'ombra del sole )... 
 ...in realtà dal 13 al 20 dicembre diminuiscono le ore di luce, sia pure di poco, aumentando sensibilmente soltanto verso il 25.
Bisogna attendere l’Epifania (6 gennaio) per vedere il sole un po’ più alto nel cielo, o addirittura il 2 febbraio (della Candelora), quando è evidente che la luce del giorno è cresciuta di un’ora e si può avere la certezza che la buona stagione non tarderà a venire.

Il fenomeno certamente di più immediato interesse per l’uomo è stato l’alternarsi del giorno e della notte in quanto ad esso si legavano aspetti ed episodi della vita pratica. Per i contadini era molto importante cercare di prevedere il tempo dei giorni e dei mesi successivi per regolarsi sui lavori da fare nei campi.

Al giorno di Santa Lucia è legata un'antica pratica popolare secondo la quale per i seguenti 12 giorni, precisamente dal 14 al 25 dicembre (per i tradizionalisti dal 13 alla vigilia del Natale il 24), si può pronosticare il tempo dell'anno che verrà, mese dopo mese. 
Mia nonna diceva che a Santa Lucia cominciava ‘ u tiampu di li calennule ( il tempo delle calende), che finisce l'Epifania.
Ora provo a spiegarvi come funzionavano le calennule (Calende - probabilmente da calendario) .
Da Santa Lucia, 13 dicembre,  a Natale, 25 dicembre, ci sono dodici giorni a cui si fanno corrispondere i dodici mesi dell’anno seguente,  traendo auspici sul carattere meteorologico di ognuno di essi, osservando il tempo di ciascun giorno successivo a Santa Lucia e fino a Natale.
Nel senso che: se il giorno 14 che corrisponde a gennaio, sarà bello, gennaio sarà anche bello; se il 15, che è febbraio, sarà piovoso, piovoso sarà quel mese; se il 16 è ventoso, tale pure sarà marzo, e così via.
Un secondo pronostico di riprova va dal 26 dicembre al 6 gennaio e il 25 dicembre viene considerato il baricentro fra le due sezioni simmetriche.
Volendo sapere, per esempio, il tempo del mese di marzo, si osserva il tempo del 15 dicembre e poi si attende la conferma del 28 dicembre: se la seconda predizione contraddice la prima, vuol dire che il mese sarà incostante.


Spero di essere stata chiara e di avervi allietato con un'altra curiosità natalizia.

domenica 20 novembre 2011

'U Rascjùle

Avevo quattro anni, più o meno, quando una mattina mi svegliai con un occhio gonfio e dolorante che non riuscivo ad aprire neanche dopo un'energica  stropicciata che mi fece aumentare il dolore. Spaventata mi alzai e correndo andai in cucina a cercare "la mamma" per capire cosa mi era successo. Lì trovai anche la nonna che subito mi disse:
<Vidime c'è tène a piccènna mejie!> e dopo avermi osservata commentò:
<Ah! Muscitàzza! t'ha 'sute 'u rascjùle (l'orzaiolo), allora a quarcune e viste 'u cule!>

Non avevo capito niente! Mentre tutti gli altri intorno a me se la ridevano, cominciai a piangere. Le parole di mia nonna avevano aggiunto alla mia paura iniziale, un senso di colpa per qualcosa che non avevo fatto, e un senso di rabbia perchè non avevo capivo nulla e loro ridevano della mia sofferenza!

Intanto mia madre aveva preparato già della camomilla e appena pronta mi tamponò l'occhio malato che piano piano riuscii ad aprire. Rassicurata dal trattamento indolore e rincuorata da quel miglioramento, smisi di piangere e mi avvicinai a mia nonna dicendo:
<Nonna, te lo giuro io non ho visto niente!>
e mia nonna mi sorrise e mi disse che lo sapeva e che mi avrebbe fatto passare la bùa.

Nel pomeriggio venne pure la nonna materna a vedere come stava 'a piccènna...
Poi le nonne si misero a parlare scambiandosi tutto ciò che sapevano sul rascjulo e decidere cosa fare con me.

Siccome tutti i riti vanno praticati la sera dopo il tramonto, quando non c'è il sole, nel tardo pomeriggio, mentre mia mamma mi teneva in braccio, ad un certo punto vidi comparire mia nonna con ago e filo...
pensai subito che volessero cucirmi l'occhio malato e scoppiai a piangere, gridando e scalciando!(ero terribile!!!)
La nonna cominciò a spiegarmi che l'ago non doveva essere usato per cucire l'occhio, ma che bastava solo passarlo davanti all'occhio malato, facendo finta di cucire, il rascjulo temendo quella minaccia, dopo la prima sera, non cresceva più, la seconda sera guariva, e la terza sera scompariva, scappando via spaventato.
Incantata da questa storiella, avevo smesso di piangere e la nonna tentò di cominciare "il rito" e mi chiese: <C'è tène a piccènne?>
e io, singhiozzando: < 'u rascjule> 
e loro: < e mò 'u cusìme > 
appena presero ago e filo facendo il gesto di cucire, io ricominciai a piangere!

Visto che quel rito mi spaventava e non avrebbe avuto effetto perchè mi agitavo troppo, decisero di cambiare...
presero una bottiglia di olio d'oliva e mi dissero che dovevo guardare dentro, appoggiando l'occhio malato sul collo della bottiglia.
La cosa mi sembrava fattibile, ma stavo ormai piangendo a singhiozzi e lacrimoni che avrebbero riempito la bottiglia! Insomma anche questo rito non si poteva fare!
Le nonne decisero che avrebbero riprovato la sera dopo e misero a posto ago e filo e la bottiglia dell'olio.

Tornata la normalità, anche io, sempre in braccio a mia madre, cominciai a calmarmi. Allora mia madre si tolse la fede nuziale e me la passò per tre volte sull'occhio, facendo il segno della croce...
...mi addormentai.
La mattina dopo l'occhio era sgonfio! Sarà stata la camomilla, la fede d'oro di mia madre, l'olio d'oliva o la paura di ago e filo...il rascjulo era sparito!

Strane credenze con rimedi ancora più strani, misti tra magia e religione. Preghiere recitate manipolando gli oggetti più impensati. La medicina classica popolare utilizza elementi religiosi, mitologici e perfino rituali magici, unendo il razionale all'irrazionale. Efficace o no? Mah! chi lo sa? A volte funziona! Ma è bello raccontarle, ma la cosa più importante  è fermare queste testimonianze, per sottrarle all'oblio del tempo.

lunedì 14 novembre 2011

Oro verde...

Sole, nuvole, acqua o  vento la campagna è sempre in fermento….
…no, non è una poesia anche se la rima c’è, casuale,  anche se l’argomento che voglio trattare di poeti ne ha ispirati e non pochi, la nostra terra, che oltre ad ispirare gli artisti bucolici, è una vera e propria miniera a cielo aperto del metallo più nobile, l’oro.
Ho già parlato dell’ “oro rosso”  dei nostri vigneti e dell'oro giallo” dei nostri campi di grano e ora tocca all’”oro verde”  dei nostri uliveti – alberi maestosi e secolari, dai tronchi scolpiti dal tempo, che sfidano le stagioni e nei giorni senza sole, rischiarano con l’argento delle loro foglie.
Sull’indiscusso valore di questi alberi e dei loro frutti, una leggenda narra di
…un contadino che aveva ricevuto in eredità un uliveto. Gli toccava zappare, arare per mantenere pulito il terreno, e otteneva le olive che con la sua famiglia usava consumare durante i pasti frugali.
Lavorava e si dannava, maledicendo quella misera eredità. Una giorno mentre lavorava nel campo, si riposò addormentandosi sotto un ulivo. Sognò una fata che sotto una macina schiacciava pepite d’oro. La fata gli chiese perché fosse così triste e disperato e dopo aver sentito le sue lamentele, si mise a ridere e gli disse:
Furìse, furìse tinìte l’oro e nonge ‘u canuscìte!
Così dicendo la fata svanì. Il contadino si svegliò e vide sull’albero le olive, che ormai mature al punto giusto trasudavano olio, e alla luce del sole sembravano pepite d’oro, le stesse che aveva visto sotto la macina della fata. Si organizzò, raccolse le olive e le macinò come aveva visto fare alla fata e ottenne così l’olio in cui inzuppò il pane e si accorse che era buonissimo. Poi cominciò ad usarlo in ogni minestra, scoprendo che ogni cosa con l’olio acquistava sapore.
La notizia si sparse per tutto il paese e il contadino cominciò a vendere l’olio diventando così ricco in poco tempo. La fata aveva avuto ragione, quegli alberi e quelle olive erano la sua miniera d’oro.


Questa leggenda spiega perché il potenziale di ricchezza delle famiglie si misurava in alberi d’ulivo e perché ogni albero d’ulivo è sacro e custodito come un bene prezioso.

Il vecchio detto: “addò ‘ppènne ‘rrènne” –  è riferito agli alberi da frutto posti a confine di solito estendono i loro rami nei terreni confinanti,  i proprietari possono raccoglierne tranquillamente i frutti che si affacciano sul loro campo.
Solo per un albero questa usanza non è valida, per l’olivo – in questo caso è il proprietario dell’albero che ha il diritto di entrare nel terreno confinante per raccogliere le olive.

Gli ulivi coprivano le nostre campagne e le coprirebbero ancora se la Serenissima non ne avessero scoraggiato la coltivazione, offrendo per un litro di olio una somma di molto inferiore a quella offerta per un litro di vino. Fu così che i vigneti strapparono all’ulivo i terreni migliori.
Ma nonostante le limitazioni, la produzione di olio è stata sempre abbondante e l’olio era così pregiato che si esportava in tutto il mondo. Per questo, prodotti tipici furono per secoli le botti, prodotti artigianali di bottai e maestri d’ascia perchè l’olio imbarcato, al freddo si solidificava ed era difficile venderlo a litri. Fu così che  i bottai inventarono un particolare tipo di botte costruita con fasciame leggero e quindi dal costo molto basso; quella che oggi chiameremmo una “ botte a perdere”.
Quando la nave giungeva a destinazione si segava la botte e l’olio solidificato si vendeva a chili anziché a litri e il problema era risolto.
La vite, il grano, gli ulivi, da sempre presenti sul nostro territorio – principale fonte di alimentazione ma anche di reddito per le famiglie e per questo, entrati a far parte  della cultura popolare
In particolare l’olio, che richiedeva tanto lavoro e per questo prodotto di grande valore.
È nominato in proverbi e modi dire, ma è largamente usato anche nelle pratiche mediche popolari – come per curare u' rasciule... e nella scaramanzia – come per l'affascene.
Ma l’olio era importante anche perché alimentava i lumi a olio che illuminavano le nostre case prima dell’avvento dell’energia elettrica – per questo si diceva lume no luce ci uègghie no arde –  senza olio il lume non fa luce, come a dire:  senza denari non si canta messa… modi dire che rimandano alla pratica delle regalie ma anche delle “bustarelle”...
Ad olio ardevano anche le lampade votive nelle chiese.
La fame di periodi di guerra e dopoguerra spingeva la gente a rubare l’olio dalle lampade votive … a tal proposito si raccontare un episodio che si tramanda di generazione in generazione perché ha dato origine al detto: Citte tu, ca mammete conde……si racconta che i devoti della Parrocchia di San Giuseppe portavano in chiesa l’olio necessario per tenere accesi i lumini. Era un dono importante, dato che la maggior parte riusciva a malapena a procurarsi pane e latte… Invece … a fine giornata il sacrestano della chiesa, passava a spegnere gli stoppini… iniziava dalla statua  della Madonna col Bambino e diceva:
“Madonna mejie ci tu no me dice niente jie me pigghie nu picche de uègghie”
Avendo come risposta il silenzio della statua che lui interpretava come consenso, raccoglieva l’olio dei lumini, ringraziava la Madonna e andava a  condire il suo piatto di  minestra.
Il parroco si accorse dell’ammanco e una sera si nascose in chiesa per capire cosa succedesse, così sentì il sacrestano che davanti alla statua della Madonna come tutte le sere diceva: “Madonna mejie ci tu no me dice niente jie me pigghie nu picche de uègghie”
Il parroco pronto disse: “No! Non voglio!”
Il sacrestano rimase sconcertato, ma poi avendo riconosciuto una voce maschile, si rivolse al Bambinello dicendo: “Citte Tu ca Mammete  conde!”

Frase che poi è entrata nell’uso comune per apostrofare chi parla senza consenso o cognizione.
In questo periodo nei campi tutto ruota intorno agli ulivi, arrampicati sui rami più alti o inginocchiati sulle loro radici, grandi, piccoli, giovani o anziani,  raccolgono  le olive. Il processo di trasformazione delle olive in olio è lungo a laborioso.  Inizia con la raccolta:
De  Santa Riparata  ogni alìa è ogliata – L’8 ottobre le olive sono già mature al punto giusto per essere raccolte.
Prima dell’avvento delle macchine la raccolta delle olive vedeva impegnati uomini, donne, giovani, anziani e bambini…intere famiglie intorno a questi alberi, dall’alba al tramonto.
Si iniziava col fare “l’era all’arvule”, che non è uno scioglilingua, ma la pulitura di tutta la zona sotto gli alberi, per una circonferenza che contenesse la chioma, lasciando un margine, un ciglio, che doveva contenere le olive “ca scutulavene” (che cadevano quando si scuotevano i rami). Naturalmente durante la battitura le olive cadevano anche fuori dall’era…. Non importava, tanto si dovevano raccogliere tutte “le fitte” (quelle che cadevano nell’aia) e “le cigghiare” (quelle che cadevano oltre il ciglio).

Un lavoro duro, fatto di mani e piedi infreddoliti e schiene spezzate…. Ma fatto con dedizione e allegria, intonando i canti a “botta e risposta”, canti che parlavano di amori nati nelle campagne tra femmene e uemmene, ma anche di sfruttamento e di ‘ntere (le donne che guidavano le squadre di femmene che lavoravano nei campi)...
Alije, alije,
come s’accogghiene chiste alije...
S’accogghiene a vvune a vvune
Pè fà despijette alle padrune.
S’accogghiene a ddòje a trète
Pè fa dispijette a ‘ttèje.


(da 'U Breviarie d'a nonne di Claudio de Cuia)

Man mano che si raccoglievano le olive venivano portate nei magazzini, dove venivano messe per terra, “sparpagghiate” , perché  dovevano arieggiare per evitare la formazione di muffe.
Poi venivano pulite dalle foglie e messe nei sacchi per essere portate a “’u trappite” (al frantoio).
Un lavoro continuo, a catena di montaggio, dove ognuno aveva il suo compito.
E fin’a mò no è niente!...

Gli addetti ai frantoi per mesi vivevano segregati. Per questo la condizione dei frantoiani era associata a quella dei marinai, perché come loro mancava mesi e mesi da casa. Il capo del frantoio al pari del capitano di una nave aveva potere assoluto sulla comunità, era chiamato nachirio, che in greco indica chi “ha in mano la nave” - il capitano, il nostromo.
I frantoi migliori erano scavati nel tufo. Erano realizzati sottoterra in quanto la facilità di scavo rendeva più conveniente il lavoro, al contrario della sua costruzione in superficie; ma anche perché la temperatura nei trappiti  doveva essere stabile e calda per favorire il flusso dell'olio nel momento in cui le olive, dopo essere state macinate, dovevano essere sottoposte alla torchiatura e allo scarto della sentina. Anche per questo motivo si preferiva orientare l'ingresso verso sud, per ripararsi dalla tramontana.
I locali erano riscaldati dai lumi che per illuminare ardevano giorno e  notte,  dalla fermentazione e dal fiato degli animali, e se questo non bastava venivano portati anche “le frascère cu ‘a cinìse” ( bracieri con la cenere calda) .
La stanza principale era caratterizzati da grandi torchi di legno e da vasche di molitura ricavate nella pietra viva.  Le grandi pietre erano azionate da nu’ ciucciariedde che doveva girare continuamente per azionare la macina. Il lavoro era a ciclo continuo come sulle grandi barche da pesca: notte e giorno da novembre a febbraio. Il nachirio dirigeva tutto il lavoro dei trappitari, i manovali da lui guidati erano almeno cinque, tra cui un ragazzino  che non superava i 15 anni, il quale svolgeva le mansioni minori: fare la spesa, portare da bere, cucinare, pulire e dar da mangiare agli animali.
Era necessario produrre un buon olio affinché si potesse piazzare bene sul mercato e il nachirio, con grande maestria, organizzava il lavoro di tutti servendosi della sua esperienza. Dopo aver fornito le direttive a ciascuno dei dipendenti, non se ne stava con le mani in mano, al contrario lavorava con lena e, allo stesso tempo, vigilava sull'operato degli altri.  La sua mansione principale era quella di "tagliare" l'olio. Egli eseguiva personalmente tutta l'operazione che consisteva nel purificare l'olio, il quale, essendo meno pesante dell'acqua, saliva a galla dopo essere stato filtrato.
U’ trappìte era  tutto per chi vi lavorava. Questi uomini si recavano nelle loro case solo per le feste  dell'Immacolata, di  Natale e per Capodanno. Nei trappiti il momento di pausa e di ristoro era la cena, a fine giornata, ‘u nachirio prendeva dell’olio,  e poi benediceva con un segno di croce il cibo: legumi alla pignata, cotti al fuoco delle zolle di sansa, e verdura lessa condita con abbondante olio – poi c’era  ‘A zuppa d’u trappitare” che prima ancora che una pietanza era un documento della nostra storia e dei suoi anonimi protagonisti. Era una zuppa di fave secche lessate a fuoco lento e broccoli lessati con foglie di alloro pomodori prezzemolo e sale, il tutto servito su fette di pane abbrustolito passate con l’aglio e naturalmente intrise nell’olio.
Quanta storia e quante storie seppellite in questi trappiti bagnati dall’olio e dal sudore di tutti questi lavoratori dagli occhi stanchi ma dal cuore palpitante.
I vecchi frantoi non esistono più, sono diventati: musei della civiltà contadina, ristoranti, ma anche luoghi per incontri socio-culturali…
…E quelli rimasti abbandonati si crede che siano il luogo di ritrovo delle streghe…
In ogni modo tra poco avremo l’olio novello, dal sapore delicato e dal profumo intenso pronto per indorare le nostre pettole.


venerdì 11 novembre 2011

Cacciàte de casa, ‘Mbriache, Curnùte, e … cu ‘a giacca a' smerse!

La festa di San Martino l’11 novembre è una data che ricorda alcuni eventi non proprio piacevoli... quali? ... continuate a leggere e li scoprirete.

- Cacciàte de case - perché questo giorno segnava la fine dell’annata agraria prima dell’arrivo dei freddi invernali. In questa data scadevano i contratti di mezzadria e i contadini con le loro famiglie, dovevano lasciare la loro casa nelle masserie e caricato il loro piccolo mondo suse nu' traìne, si incamminavano per trovare sistemazione altrove.


- ‘mbriache - questo non ha bisogno di spiegazione perché tutt’oggi , osservando il detto che dice che a San Martino ogni mosto è vino, tutti sappiamo che è il momento di assaggiare il vino novello. San Martino patrono del vino dei vignaioli e degli ubriachi….infatti una leggenda racconta che:
San Martino era un grande estimatore del nettare di Bacco e spesso e volentieri si ubriacava.
Una sera d'inverno faceva molto freddo e San Martino lasciò a casa la moglie incinta per andare in una cantina dove si ubriacò.
Mentre egli tornava a casa, decise che per non dare fastidio alla moglie avrebbe dormito in cantina. Entrò giù nella sua cantina e si accovacciò in una nicchia scavata dentro il muro proprio dietro una grande botte., ma a causa del freddo, la notte morì!
Arrivato in Paradiso, Dio vedendo che lui era morto per troppa premura nei confronti della moglie, lo fece santo.
La moglie lo aspettò invano, di lui non ebbe più notizie, ma da quel giorno si accorse che  da quella grande botte che lei teneva in cantina, più vino toglieva e più ne ritrovava. La notizia si propagò a persino il Prete lo seppe e andò a casa della vedova  per vedere quel miracolo,  osservò bene la botte e si accorse del corpo del santo dentro la nicchia e vide che dalla sua bocca era spuntata una vite e questa vite era entrata dentro la botte. Da questo ramo cresceva continuamente l’uva e diventava vino.
Il Parroco decretò il miracolo e su quella cantina vi costruirono una Chiesa.


Ecco perché L’11 novembre si assaggia il vino novello accompagnato da castagne e dai nostri piatti tipici.




Curnute - aggettivo che non è stato sempre un dispregiativo.
Nell’antichità le corna simboleggiavano forza, coraggio, ardore e virilità. Nella tradizione greco-romana e’ simbolo di fecondita’ e felicita’.
Molte divinità e molti personaggi potenti venivano rappresentati con  un bel paio di corna più o meno grandi sulla fronte; un esempio è il Mosè di Michelangelo e le “corna d’oro” del dio Bacco.
Molti guerrieri in varie contrade indossavano elmi con le corna, e più erano importanti, tanto le corna sui loro copricapi erano imponenti.
Poi ad un tratto l’epiteto “cornuto” è diventato un insulto, da tanta altezza nella tradizione mitologica popolare le corna sono decadute a indicare la vittima del tradimento.  E il protettore dei mariti (cornuti) è San Martino. 
Una leggenda vuole che:
"Martino era gelosissimo, anche di sua sorella. Era così geloso che per evitare che qualcuno approfittasse dell’ ingenuità della fanciulla, preferiva portarsela sulle spalle. Ma un giorno la ragazza adducendo l’impellenza di un bisogno fisiologico, scese dalle spalle di Martino e andò dietro un cespuglio dove l’aspettava il suo fidanzato. Quando ritornò Martino nel prenderla sulle spalle si accorse che era diventata più pesante e capì che la sorella era riuscita a sfuggire al suo controllo ed era rimasta incinta."


E' curioso sapere dell'esistenza di piatti della tradizione popolare, tipici di questa ricorrenza…
 - a' sciòtta – una zuppa di verdure, principalmente zucchine, patate e melanzane, pomodori, peperoni ….
Le patate e le zucchine sono ortaggi che mantengono a lungo il calore, non si raffreddano facilmente, quindi le mogli potevano cucinare la mattina di buon’ora poi uscire per dedicarsi ad attività più alternative molto più divertenti, e al ritorno, servire ai mariti un piatto ancora caldo…

- a' bbinchiamariti - Una frittata a base di uova, formaggio, pangrattato, farina, prezzemolo… tagliata a fette e cotta in un sugo lento di pomodoro.  La frittata triplicava di volume e diventava soffice e gustosa.
Pochi e semplici ingredienti in grado di appagare la fame dei mariti che ritornavano dai campi… ma a conferma dell’eterno legame tra sesso e cibo, una moglie infedele nascondeva le sue scappatelle con scuse legate alla preparazione del piatto: le mancavano o le uova o il prezzemolo o la farina e per questo doveva uscire per procurarsi tutto il necessario; assenze che il marito non esitava a giustificare dopo essersi leccato i baffi per la soddisfazione.
Il nome di questo piatto infatti mette in risalto la credulità degli uomini, non solo per la soddisfazione del gusto ma anche per la scorpacciata di bugie che la moglie gli serviva come verità con contorno di “cicereamuedde”  (vezzi, coccole ….frizzi e lazzi)
E quando i mariti non rinunciavano al piacere di una spaghettata allora era tempo di “pasta ‘ndrutulate
La progenitrice dell’odierna pasta e burro -  “ la pasta dei cornuti per antonomasia.

 - a giacca alla smerse - perchè un’usanza goliardica vuole che i potenziali cornuti vadano in giro con la giacca voltata per il verso della fodera  … perché? 

Beh! perchè ai fedifraghi capita, per la fretta,  di indossare gli indumenti a rovescio....

perchè credenza popolare vuole che indossare un indumento a rovescio protegga dalle malelingue e allontani le dicerie...

perchè usanza goliardica vuole che  i “potenziali cornuti “ vadano in giro con la giacca voltata per il verso della fodera a fare gli auguri agli amici, per sdrammatizzare “le corna” facendo capire che tutte le cose, come la giacca,  possono essere accettate … anche alla rovescia.

A' fère de le ciuccie

L'  11 novembre una data famosa per il   vino,  per  le giacche rivoltate e mariti cornuti... ma  è una data importante anche per gli ASINI ... si avete letto bene, parliamo di ciucci.
L'asino  ha sempre accompagnato la vita dell’uomo, aveva un ruolo importantissimo nella civiltà contadina aiutava l’uomo nel duro lavoro,    trainava carri e aratri, portava pesi, girava macine, forniva latte, ma era anche un compagno di vita.  Costava meno e lavorava meglio di un cavallo, per questo era considerato un bene prezioso, tanto che spesso la sua stalla era una stanza della casa. Chi possedeva un asino era un privilegiato  ed chi non lo aveva, cercava di risparmiare per poterselo comprare il possesso di un asino era fondamentale, tant’è che s’insegnava anche ai  piccoli, quando facendoli dondolare sulle gambe si cantava loro la filastrocca:

oppe, oppe cavadduzze
ca ma scè a Munteiase,
m’ha ‘cattà nu’ belle ciuccie
oppe, oppe cavadduzze

Era indispensabile avere il ciuccio e per procurarselo bastava andare alle fiere che si tenevano nei vari paesini, che una volta erano prettamente agricole con una vasta esposizione di animali mucche, buoi, cavalli e ciucci.
Anche la Fiera Pessima di Manduria era detta  a “fèra de li ciucci”
Ma la città famosa per i suoi ciucci era ed è  Martina Franca, dove in occasione dei festeggiamenti del Santo Patrono, San Martino, si svolge la fiera in cui venono esposti bellissimi esemplari di asino murgese.

L’importanza del ciuccio e l’accanimento del fato sono i soggetti preferiti da molti detti popolari:
A ‘u ricche le more a’ mugghiere, a u’ puvirijdde le more u’ ciuccie
Il povero è sempre quello più colpito dalla malasorte…. Al ricco muore la moglie che sperperava le sue ricchezze – al povero muore l’asino fonte (a volte unica) del suo sostentamento.
Morale: il ricco dopo la morte della moglie sarà più ricco e il povero dopo la morte del ciuccio sarà più povero.
Un animale umile, affettuoso e fedele dalle doti contrapposte:

-paziente e irascibile - le ciuccie s'arràiene e le varrile se squascene

-Ignorante e saggio  - megghie nu ciuccie vive de nu miedeche muerte

–  ostinato e mansueto -   No ne vò acqua la ciuccia –  oppure – quanne u’ ciuccie no vò beve è inutile ca fìsche
perché se un asino decide di non fare qualcosa è inutile insistere tant’è che
 a lavà ‘a càpe a ‘u ciuccie se perde acqua lissìa e sapòne,  perchè
ci nasce ciuccie no po murè cavàdde – insomma quanne ciuccie no vò camìne avòglie ca’tire  -

a tal proposito è bello ricordare la storiella di " un padre e un figlio che erano andati a lavorare in campagna con il loro asino. Stavano lavorando di gran lena quando ad un certo punto  l’asino s’impunta e non va più avanti. Il padre comincia a bestemmiare e a tirare le redini per incitare l’animale a proseguire, tirava con tanta rabbia che la capezza strozzava l’asino costringendolo ad una smorfia di dolore, il  figlio se ne accorse ma non capì e gridò al padre:
Tira ta’ ca  ‘u ciuccie stè ride!"


Povero ciuccio! Ma si sa che ragghie de ciuccie nònge arrivene ‘nciele

Rappresenta la ricchezza dei poveri, e come viene ricordato da alcuni proverbi fa tanto e si accontenta di poco:
‘u ciuccie porte vine e bève acqua - come bestia da soma, l’asino trasporta di tutto e in cambio chiede solo un po’ di fieno e acqua
'U piacere du ciucce jè a gramegne – non conoscendo le cose buone, il ciuccio si accontenta digli scarti.

Per quanto riguarda il lavoro, l’asino è davvero insuperabile tant’è  che di un uomo che lavora tanto si dice che  fatìe come nu ciuccie  o  che  è nu ciuccie de fatìe.
E’ un animale che fa tutto quello che vuole fargli fare il padrone  anche quando non è d’accordo -  attacche u’ ciuccie do’ vole u’ padrùne

Per monito alle donne vanagloriose si usa raccontare la storia di un giovane signorotto, sfaticato di razza, che si innamorò di una popolana ma quando la chiese in sposa questa rispose:
Cì fatìe come nu ciuccie campe da signore, ma ci fatìe da signòre, mangie come le ciuccie.

Per quanto riguarda il lavoro l’asino non ha eguali, è un maestro nel vero senso della parola!
Fu un asino ad insegnare ai contadini a potare la vigna.
Una volta  non si potava la vite, ma i grappoli erano poveri e facevano un vino deboluccio.
Un padrone distratto legò  il suo asino ad un palo della vigna. La bestia, mentre il contadino zappava, si mise a rosicchiare una serie di tralci spuntandoli. L’uomo quando si accorse  preso da tutte le furie bastonò il povero animale. Ma l’anno successivo, in autunno, vide che quei tralci cimati dall’asino avevano fatto dei bellissimi grappoli mai scorti prima.
Al termine della vendemmia, legò nuovamente l’asino al palo della vigna, ma l’animale, dotato anche di una forte memoria ricordandosi le bastonate se ne guardò bene dal mangiare la vite.
Il contadino cercò di fare come aveva fatto l’animale e imparò a  tagliare i tralci della vite, ma ... U’ prime putatòre fu nu’ ciuccie.
Probabilmente la potatura della vite era cosa facile per l’animale preferito, nonché mezzo di trasporto di Dionisio e di suo figlio Priapo col  l'asino condivideva virili analogie.

L’asino è  bravo per i lavori grossolani ma non per quelli di precisone, tant’è che di un barbiere poco esperto si dice che è nu scorciaciuccie.

Oltre che nella precisione, deficita anche nelle buone maniere. Quando qualcuno regala qualcosa per usarla personalmente si dice che U’ ciuccie porte a pagghie e u’ ciuccie s'a sparpagghie
Ma a volte gli uomini sono più maleducati di un ciuccio. Quando qualcuno arriva e non saluta si dice che pure nu ciuccie quanne acchie nòtre ciuccie, ragghie.


Prima dell'avvento del W.C. depositario dei bisogni fisiologici era il "cantero" detto anche "prìse" o "zi' Peppe" che era anche il nome con cui veniva chiamato chi passava per i vicoli con un asinello che trainava a carrìzze in cui venivano svuotati i canteri.

Si racconta che u ciuccie di zi peppe non era accudito bene ed era malandato tanto che  se una persona piena di acciacchi si dice che è come u' ciuccie de zi peppe, cu 99 male e a coda fracete...

Si racconta che un giorno zi peppe riuscì a vendere il suo ciucciarello e qualche tempo dopo si recò a Martina per comprarsi un altro ciuccio. Mentre girava per la fiera sentì un raglio che conosceva, si girò e vide il suo  asinello che ripulito e bardato a dovere era irriconoscibile, si avvicinò e accarezzandolo gli sussurrò:  fatte accattà da ci no te canòsce   frase usata verso chi ostenta essere ciò che non è.


mercoledì 2 novembre 2011

Pensieri in rima ...

A TOMBA ABBANDUNATE

Stamatìne m’hagghie azàte de prim’ore
E hagghie sciute dritte a ‘u cemetere.
M’hagghie sunnàte attaneme ca me diceve:

<…ma dimme tu de me te n’è scurdàte?
A tombe meije jè totta gnurecate,
le fiure s’honne fatte sicche sicche
e minz’a ste tombe profumate
pare ca so’… n’anema abbandunate.
U’ sé da quanda tijembe ca t’aspette?
Jè quase n’anne, ma tu nò te recuerde…
Ma cè ste aspitte ‘u giurne de le muerte
Pe me purtà nu fiore?...
O tenche tuerte?...>

Papà, stanotte tu m’è maltrattate
Ma è fatte bbuene, l’hagghie meretàte.
E viste quanta fiure t’hagghie annutte?
…Fra doije, tre giurne, te le cange tutte!
               

                                                     Antonio Bruno

martedì 1 novembre 2011

'U cùnzele


In questi primi giorni di novembre è usanza ricordare i defunti. Giorni tristi in cui rievochiamo il lutto ed uno dei momenti di elaborazione e superamento del lutto è ... 

U' cùnzele, ossia il pranzo consolatorio offerto da parenti e amici, alla famiglia colpita da un lutto.
Nella casa colpita dal lutto, per rispetto del defunto, bisognava interrompere tutte le attività quotidiane, la tradizione impediva che per almeno una settimana si accendesse il fuoco, e il digiuno poteva essere interrotto solo dal cibo portato dall'esterno da parenti e amici. 
U' cùnzele offriva una delle rare occasioni in cui si cucinava la carne bollita ... con àccie (sedano), putresìne (prezzemolo), alàure e cipòdde (alloro e cipolla) e pastunàche (carote).
Nella società contadina l'uso della carne era limitato a poche occasioni, e quasi sempre si utilizzava la gallina, che veniva ammazzata solo se aveva scovato (non produceva più uova).
Oltre al brodo, facevano parte del "cùnzele" anche fritture di pesce, uova, formaggi, taralli e vino.... erano simili a conviti nuziali. Mangiare in compagnia era segno di superamento del lutto, durante i cùnsoli non mancavano risate e canti, considerati come la volontà disperata di far trionfare la vita sulla morte. Si mangiava e si beveva del vino alzando il bicchiere dicendo: <Paradìse a jdde e salute a nùje!>
E in tutto questo non vi era nulla di contraddittorio.
Il banchetto funebre esigeva alcune regole:
- niente di ciò che avanzava doveva tornare indietro, poichè si credeva che col cibo si sarebbe portato fuori anche il dolore;
- le stoviglie non dovevano essere lavate a casa del defunto, poichè le attività domestiche avrebbero impedito al defunto di trovare il giusto riposo, e ai sopravvissuti di trovare la rassegnazione.

domenica 16 ottobre 2011

Chiangìte piccìnne!

Chiangìte piccìnne!…  era l’inizio della frase tipica dei venditori ambulanti che gironzolavano per strìttele e postierle per vendere la loro arte i loro mestieri e la loro merce. Ognuno aveva il suo grido, unico e riconoscibile. Il grido imbonitore comune a tutti era .. chiangite  piccinne...
L’inizio di una frase che continuava: … c’a mamma v’accatte …
Per terminare col nome del prodotto che vendevano, spesso cose che producevano loro, nei campi.
Mi piace ricordarne qualcuno dei più curiosi, il cui nome col tempo si è italianizzato …


Chiangìte piccìnne c'a mamma v'accatte le … COTT’E CAVITE
Viene da pensare a qualcosa che non esiste più, invece no, tutt’oggi ci piacciono molto specie in questo periodo…. È plausibile chiedersi: E ccè ‘ssò?... udite udite... le caldarroste

 Vendute da chi fornito di tripiede, fornello, padella bucata e cesto si metteva all’angolo a riempire cartocci fatti di carta di giornale con le buonissime castagne appena appena tirate dal fuoco, pronte a riscaldare le mani gelate dai primi freddi autunnali, e a deliziare il palato.
Buone le castagne, nutrienti  e golose per piccini ma anche per grandi che nelle cantine le usavano come spingitore, ossia per far invogliare a bere vino, perché la castagna se non è innaffiata “ annoddeca” (fa affogare) … e il vino aiuta a “gnottere” …


Oltre le cott’è cavite c’erano anche  le cott’allesse,  le castagne lesse.
Poi c’erano anche le  castagne d’u prevete: castagne lessate e poi infornate:  si dice che vennero chiamate così per via di un prete che era molto ghiotto di castagne lesse  e  siccome preferiva mangiarle caldissime,  un giorno che lui ritardava la perpetua per tenerle in caldo le mise nel forno, dove presero un sapore diverso ma altrettanto gradevole, al punto che il prete chiese di prepararle sempre in quel modo.


Chiangìte piccìnne c'a mamma v'accatte le … PIGHIANCULE

Cos’era?  … Un frutto strano, ma anche straniero, ma che nelle nostre terre attecchisce bene, regalandoci i suoi deliziosi frutti, quali? I  Cachi …o loti … o diosperi … come li chiamano alcuni … generalmente si usa il singolare “caco” – termine errato  ma che descrive perfettamente l’effetto collaterale provocato dall’eccessivo consumo… che in versione dialettale ha generato il termine “pighiancule”.
Buoni dolcissimi se consumati a giusta maturazione, perché se sono acerbi sono aspri e "allippen’a lenghe!”
Però siccome quando sono maturi so’ modde modde e a molti non piacciono per questo… per soddisfare le richieste di coloro che li amano belli tosti sono nati i cachi vaniglia che hanno la consistenza di una mela e la dolcezza del cachi.
I cachi accontentavano le mamme, perché erano economici e nutrienti,  e i bambini perché erano golosi e “divertenti”  perchè avevano la sorpresa all’interno, proprio come gli attuali ovetti di cioccolato. 

Nei semi dei cachi il germoglio assume la strana forma di una posata: forchetta, cucchiaio, coltello, tutti abbiamo giocato a  rompere sotto i dentini i semi per vedere quale posatina trovavamo dentro, perché nella fantasia popolare:
-   la forchetta  “te ponge ‘u core” ( pungeva il cuore) , simboleggiava amore
-   Il cucchiaio  “porte solde a palate"   (portava soldi),
-   il coltello “ te stonna tagghiene” (portava invidia e maldicenze).


Chiangìte piccìnne c'a mamma v'accatte le sète
Ossia la melagrana, frutto dolcissimo, goloso e curioso, circondato da leggende, credenze, tradizioni, cunti e muttètti.
I suoi grani rossi sono simbolo di prosperità e buon auspicio, e per questo particolarmente consumati nel cenone di Capodanno.
Forse il nome dialettale deriva dal fatto che la loro buccia era usata per colorare di giallo i tessuti…anche la delicata seta, perché si fissa anche a freddo, senza bollitura.


Chiangìte piccìnne c'a mamma v'accatte le … ‘u zippere doce Questo lo conoscete tutti…. Comunque il bastoncino di liquirizia meritava due righe.
Anche lui aveva il suo bravo venditore che andava a trovarli nei campi e poi li vendeva, sapendo che erano ricercati da grandi e piccini.  







E parlando di venditori ambulanti mi piace ricordare: Francesco, ai più noto come “ciambell’e braciòle’” …. Lo storico venditore di giocattoli al mercato. Storico perché io lo ricordo da sempre, sempre lo stesso grido variabile solo con le stagioni, ma sempre lo stesso...nel periodo autunno /inverno, da settembre a maggio il grido è: “I palloncini della festa di Taranto”… quale festa? Boh! Non si sa, non una precisa, tranne che a maggio, quando il grido cambia in onore del nostro Patrono e diventa: “I palloncini della festa di San Cataldo”….
Periodo primavera/estate,  da maggio (dopo san cataldo) a settembre il grido è: “ciambell’è braciòle’” …. Quello che gli è valso la nomination… Sentendo questo grido, chi non lo sa può pensare alla vendita di deliziosi gnucculjiedde nostrani, qualche panino con i nostri indimenticabili involtini, oppure a deliziosi dolcetti. E invece no, niente di mangereccio. E allora, cosa sono? ... salvagente (ciambelle) e braccioli (braciòle) da nuoto per i bambini  …
Ma non finisce così perché quello che rimane impresso di questo personaggio è la sua tecnica di vendita.
Lui si sposta con la sua vecchia bicicletta da un mercato all’altro, non porta con se molti giocattoli,  una diecina di palloncini colorati, ciambell’ e braciol’ a cui unisce qualche secchiello e paletta, qualche girandola, ma non quelle moderne enormi, colorate e tecnologiche, usate per scacciare i piccioni cittadini, ma le girandole piccoline e semplici e artigianali di una volta…Lui ha sempre in mano un palloncino o una girandola, appena passa una mamma col passeggino, mentre la mamma, ignara, chiacchiera tranquillamente con l’amica a seguito, sua compagna e consigliera per gli acquisti,  lui mette il palloncino o la girandola in mano al bambino… Appena la mamma se ne accorge, toglie il giocattolo dalle mani del bambino e, credendo sia stato il figlio ad agguantarlo,  lo restituisce al venditore scusandosi; ma cosa succede nel frattempo? Il bambino, privato del giocattolo e rimproverato suo malgrado, comincia a piangere e a scalpitare e…. la mamma si vede costretta ad acquistare il palloncino …
E così tutti sono felici e contenti: il piccolino ha il suo giocattolo, il venditore ha il suo guadagno e la mamma può continuare a girare tranquillamente il mercato …

 

domenica 2 ottobre 2011

'A vinnegna

<Quanne è tiemb' de vinnegna - "zi cc'è vegne, zi cc'è vegneu"
Quanne è tiemb' de zzappa e put' - No sse vedene le nipute.>


Nonostante le temperature ancora calde, è arrivato Ottobre portando con se l'autunno che solletica i nostri nasi, profumando l'aria col tipico odore, frizzante e dolciastro, dell'uva matura.
Ottobre è il mese della vendemmia.  Come ogni anno in questi giorni i vigneti, già dalle prime ore dell'alba si animano. Tra i filari sotto i tendoni è un brulicare di persone, fèmmene e 'uèmmene  che si dedicano alla raccolta dell'uva, un momento atteso un anno, un vero e proprio rito fatto di regole e di tradizioni antichissime che, pur mutando metodi e tecniche di esecuzione, si perpetuano ancora.
È l'uva la reginetta della festa, è lei la grande protagonista. La troviamo nei cesti di vendemmia stracolmi, nei trattori carichi che vanno e vengono trasportando le tinodde, e soprattutto la troviamo nella bocca di tutti, che gustano ammiccando compiaciuti e soddisfatti. 
Il lavoro nei campi è duro, ma è anche un importante momento di socializzazione. Stare insieme, giovani, vecchi e bambini, lavorare col sorriso sulle labbra e la felicità nel cuore,  ritrovarsi tutti insieme a cantare accompagnati dal suono delle pizzicalore, e a scambiarsi battute scherzose.
C'è chi va in campagna ad assistere alla vendemmia col solo scopo di passare una giornata diversa dalle altre, c'è chi ci va perché innamorato della straordinaria atmosfera che si crea in questo giorno.
La vendemmia è il premio di tutto un anno di amorose cure alle viti, è una festa che ricompenserà la fatica e gli affanni con la produzione del buonissimo vino...
Di buon mattino tutti cominciano a tagliare i grappoli che riempiono le tinodde da svuotare nei paramiende (il palmenti) delle cantine.
Aspettando il ritorno del trattore dalla cantina, a metà giornata ci si fermerà per rifocillarsi, mangiando all'ombra d'u tendone, pane cu' a murtadella e alici salate, accompagnato da qualche raciòppa (piccolo grappolo d'uva) e innaffiato col vino buon dell'anno prima.
A fine giornata, mentre gli uomini finiscono di portare l'uva in cantina, le donne di casa prepareranno "u capecanale" - ossia la tavolata tanto attesa da tutti, fatta di piatti tipici.
Tutti i prodotti della campagna sono presenti:
 - insalate fatte con cicoria selvatica: zangùne (tarassaco), prugghiàzze  (portulaca);
 - spingitòra per gustare meglio il vino: finùcchie, àccia, melanzane e carciofi
   sott'olio, diaulicchie salate, formaggi, salsicce .....
per continuare poi con i piatti tipici:
 - ciambotta (minestra di patate, peperoni, melanzane cotte nel sugo),
 - peperusse a scacchiata (peperoni fritti e poi cotti nel sugho con capperi e olive),
fichi settembrini, uva...colori, profumi e sapori che coprono la tavola sulla quale scorre vino, battute, risate e cantie balli, tutti possono alzarsi a cantare, tutti possono improvvisare il loro stornello, o un versetto per un brindisi. Una festa, quella della vendemmia, che ricorda i simposi dell'antica grecia.
La vite, fin dall'antichità è stata una delle colture più diffude nel tarantino, e la sua coltivazione ci è stata insegnata dai coloni spartani.
Le anfore preziose, venute in luce negli scavi del Tarantino, e i cammei con la figura di Dionisio, dicono quale importanza abbia avuto per il popolo la ricchezza vinicola, che ha reso la regione famosa nell'antichità.
Grande nella Taranto greca, la rilevanza sociale del vino, che era il  protagonista indiscusso delle  feste dionisiache, celebrate in autunno fra fiumi di vino e che si concludevano con sbornie collettive benedette da Dionisio.
A tal proposito la leggenda dell'uva, narra che...
...< Quando il giovane Dionisio approdò in Puglia, con il suo corteo di satiri e menadi, vi trovò dei campi sassosi dove cresceva una vegetazione scarsa e stentata. Aveva portato con se un ramoscello di vite, mentre passeggiava per i campi, sfiduciato, con il calzare dorato fece saltare lontano i sassi, scoprendo la terra arsa dal sole, e scavata una buchetta nel terreno, ve lo piantò. Poi andò a cercare un po' d'acqua per innaffiarlo e per ammorbidire il terreno intorno alla pianta, ma quando tornò, il vento impetuoso aveva già sradicato il ramoscello e lo stava trascinando via. Cercò un sostegno ma non vi erano che sassi, non un bastoncino, non una canna, qua e là tra le pietre, biancheggiavano solo ossa di animali divorati dai lupi. Ne scelse tre e ne fece sostegno alla piantina.
Erano un osso di leone, uno di scimmia e uno di maiale.
Il ramoscello crebbe e diede bellissimi grappoli. Ma la pianta aveva assorbito le caratteristiche dei tre ossi che l'avevano sostenuta. Gli uomini se ne accorsero quando spremettero l'uva e assaggiarono l'ottimo vino che ottennero.
La prima coppa li rendeva coraggiosi come il leone, la seconda gai e divertenti come le scimmie, ma la terza, ahimè, li faceva terribilmente somigliare al maiale.>

Così i tarantini spiegano ai forestieri le caratteristiche e i pericoli del loro vino corposo...
Il successo della bontà dei nostri vini è dato innanzitutto dalla qualità delle nostre uve
 - sia da tavola, come la duraca, la reggina, l'italia, la cornola,
 - sia da vino, come sannicola, moscato, primaticce, malvasia

E anche l'uva ha la sua storia...

IL PRIMITIVO
< È il vino storico per eccellenza di questa terra, erede dell’antico “merum” (da cui deriva il termine dialettale mieru) citato ed elogiato nelle odi di Virgilio ed Orazio.
La storia del Primitivo si confonde, a tratti, con la leggenda. Proveniente in Puglia, con ogni probabilità dall’Illiria oltre 2000 anni fa.
L'origine e la definizione di primitivo si deve ad un uomo di chiesa, Don Francesco Filippo Indelicati,  primicerio della chiesa di Gioia del Colle, il quale notò che tra i vitigni da lui amorevolmente coltivati c'era una pianta che giungeva a maturazione prima di tutte (da qui il nome: primativus o primaticcio), dava un uva gustosa e dolce e si poteva vendemmiare già sul finire di Agosto.
Il primitivo giunge a noi per merito di, Don Tommaso Schiavoni Tafuri il quale sposò la contessina del casato Sabini di Altamura, che portò in dote delle barbatelle scelte di quella vite così particolare.
A Manduria e dintorni, la pianta ha trovato, sin da allora un ambiente favorevole e  ottimale, soprattutto nelle lingue di terra che costeggiano il mare, il clima ha favorito quell'appassimento naturale del frutto, che fa aumentare gli zuccheri ed elevare la gradazione alcolica. >


Una particolarità del primitivo, molto gradita ai contadini, è che il primitivo regala ben due "raccolti" - uno a fine agosto e uno agli inizi di ottobre.
Continuiamo con le curiosità.

Anche se il vino era sicuramente prodotto da secoli, l'origine del nome Malvasia trae origine da una leggenda molto sfiziosa...

LA MALVASIA
< ...un povero contadino, Adimaro, lavorava a mezzadria le vigne di un signorotto.
Un giorno mentre trasportava il vino dolce, denso, profumato, che otteneva dal lavoro nelle vigne, per farne offerta alla chiesa, lungo il cammino incontrò il suo padrone. Sapendo che avrebbe subito un'ispezione e temendo la condanna che il suo padrone gli avrebbe afflitto, con atto di fede chiese aiuto:
"Signore, fa che succo di malva sia...".
Fermato per l'ispezione, il suo padrone gli chiese cosa trasportava, e Adimaro rispose: "succo di malva" -  ma il padrone certo di essere stato derubato, volle assaggiare quello che trasportava, al primo sorso fece subito una smorfia di disgusto e Adimaro così capì che le sue preghiere erano state esaudite.
Il suo padrone lo lasciò passare e Adimaro portò in chiesa il suo buon vino, che da allora si chiamò Malvasia.>

lunedì 26 settembre 2011

Sande Coseme e Attamiane

La devozione ai S.S. Medici è molto sentita dai Tarantini tanto da avere due feste, una in Città Vecchia e una in Città Nuova. La devozione, verso questi Santi, tiene in vita quella che viene chiamata "Fèst de Chiesa" proprio perché  si svolge con celebrazione di Messe, Litanie e  Processioni per ringraziare i Santi delle guarigioni ricevute, o per chiedere la loro intercessione.

Una delle invocazioni  ai SS. Medici recita:“Sande Coseme e Attamiane, tu me spijzze e tu me sane”
Un  detto popolare  augurale  recita:  Malatìe a palate e morte majie….

Benché le aspettative di vita sono più lunghe e migliori, molte malattie, una volta mortali,  sono state sconfitte ma altre rimangono ancora e fanno paura, e quando i medici non ci danno speranze, seguendo la fede e l’impulso istintivo dell’anima preghiamo i Santi invocando la loro intercessione come ultima speranza di una guarigione impossibile. Segno tangibile di questo sono gli ex voto:  
 Oggetto offerto in dono alla divinita'  (in eta' cristiana a Dio, alla Vergine, a un santo) per grazia ricevuta o in adempimento di una promessa (Devoto Oli, Dizionario della lingua Italiana).

Cuori in argento,  vestiti, strumenti di lavoro, statuette e quadri raffiguranti i miracoli ricevuti e donati come simbolo di devozione e ringraziamento. Ogni ex voto racconta storie malattia e dolore che da sempre vanno a braccetto con la vita e la morte dell’uomo,  che le ha sempre combattute cercando di ingraziarsi la benevolenza divina per superare le avversità, prima con sacrifici, digiuni, astinenze, pellegrinaggi in onore di dei pagani, poi il Cristianesimo ha sancito che le guarigioni possono avvenire solo per opera del Signore … o come si suol dire: pi opere d’u Spirete Sande , ossia per miracolo.

La processione in onore dei SS. Medici è la più ricca di ceri devozionali portati dai fedeli e per questo è detta "processione dei ceri" tipica proprio di questa ricorrenza, ha origini antichissime.
Il cero viene portato in processione da chi deve sciogliere il voto, come ringraziamento per la grazia ricevuta. Questo rito trae le sue origini da un’ antichissima usanza della Confraternita di  Maria SS. di Costantinopoli  (meglio conosciuti come “le confratèlle de Sande Coseme”) – che avevano nel loro statuto “la tassa del candelo” –  che non è una vera tassa, ma rientra nel novero dei “legati” delle confraternite, una sorta di autotassazione a carico dei confratelli, il cui ricavato veniva utilizzato per vari scopi benefici di mutuo soccorso tra confratelli, diventato col tempo anche assistenza extra confraternale. Vi erano obblighi di vario tipo:
Dalla Tassa dell’ ”entratura” – pagata dai Confratelli al momento dell’iscrizione,
-  alle “mesatelle” – la quota mensile che ogni confratello doveva versare per venire incontro alle necessità della Congrega – tra cui era prevista anche una “cassa malattia” per aiutare le famiglie dei Confratelli che si ammalavano, per sostenerli nei giorni in cui non potevano andare a lavoro –  quando il lavoro era a giornata e non c’era ancora alcuna tutela ne assistenziale per chi si ammalava ne previdenziale per chi era troppo vecchio per lavorare.
 - ai “maritaggi”  -  era una quota che andava nella “cassa maritaggi”, che ogni anno veniva destinata per preparare la dote alla figlia, in età da marito,  di un confratello bisognoso.
Se nessuno dei confratelli ne aveva bisogno, il maritaggio veniva dato ad una fanciulla onorata e di buona famiglia che, in stato di bisogno, l’avrebbe utilizzato per il matrimonio.
Dato che la cifra della cassa maritaggi era sempre modesta e le famiglie bisognose che ne facevano richiesta erano tantissime, la confraternita  procedeva all’assegnazione per estrazione.

Ma ritorniamo alla tassa del candelo …
I Confratelli di Maria SS di Costantinopoli quando moriva un confratello, facevano un’offerta che serviva  a  comprare i ceri per la veglia e per il funerale. Non tutti i ceri venivano utilizzati e  quelli rimanenti venivano conservati nella “stanza della cera”. Fortunatamente i funerali non erano numerosi, perciò si decise di togliere questa tassa e per smaltire i ceri accumulati nello stanzino i confratelli decisero di venderli ai fedeli per illuminare la processione dei Santi Medici.

Finita la tassa del candelo iniziò “l’offerta del cero”.
Tra i fedeli rimase l’usanza devozionale di offrire un cero ai Santi Medici. Chi non partecipava alla processione offriva ugualmente un cero ai Santi, per questo durante la processione, c’erano quelli che erano incaricati a raccogliere i ceri di tutti i devoti che si accalcavano tra i vicoli aspettando il passaggio della processione, per portarli nella chiesetta della città vecchia.
I portatori di ceri dietro la processione erano tantissimi (tutti i partecipanti), la cera sciogliendosi cadeva sulle “chianche”  dei vicoli percorsi dalla processione, che già scivolose per natura, ricoperte di cera diventavano impraticabili. Per questo motivo prima della processione, su tutto il tragitto, si provvedeva a spargere del tufo o  della sabbia. Dietro la processione poi i ragazzini raccoglievano i pezzi dei cera fusa per poi rivenderli ai fabbricanti di ceri…..

Altra antica tradizione era anche "u' taradduzze de Sànde Coseme" - un tarallo con tre punte (che dovrebbero simboleggiare le tre virtù teologali, fede, speranza, carità), nel cui foro veniva inserita "a' figurìna" dei Santi - che veniva benedetto e distribuito ai fedeli, dopo la messa.
Questo tarallino, come i Pani votivi di Sant'Antonio e San Giuseppe, veniva conservato e utilizzato solo in caso di malattie o temporali.

Tanti anni fa, questa festa era molto attesa, anche perchè era una delle poche occasioni, in cui si poteva mangiare la carne. Infatti, l'usanza era quella di preparare "u jadduzze".
Era un piatto semplice, galletto con le patate al forno, ma......... una particolarità c'è sempre...
il galletto doveva essere rigorosamente "de prima candàte" (di primo canto), perchè? ... probabilmente perchè in onore a Santi doveva essere cucinato "il meglio"... quindi basterà assaggiare la pietanza per capire.

mercoledì 27 luglio 2011

La notte della salsa

L’estate è la stagione delle ferie, delle vacanze,  del divertimento.     Tra un concorso, una festa  e una sagra, troviamo spesso una notte:  notte delle stelle cadenti, notte bianca,  notte di note, notte della taranta … e tra le varie notti quella che mi ha ispirato è “la notte della salsa”. 
L’invito a passare una notte scandita dalla musica latino americana,  dal ritmo sensuale, coinvolgente …  che fa subito estate, a me ha riportato alla mente odori e sapori antichi di una ritualità  in via d’estinzione.



Proprio come in questo “picco d’estate”,  nei giorni in cui il caldo era più afoso e a’ faugne toglieva le forze, il fiato e la voglia di fare, la sera seduti n’anze a casa,  la delegazione femminile del consiglio di famiglia composto da mamma, nonne e zie, decretava     s’hanna  fa le pummedòre… 
Questa frase mi rendeva felice perché da bambini ogni cosa è un gioco, anche se mi chiedevo: ma perché proprio adesso con questo caldo?    

Poi da grande ho capito che l’antica formula  vuole  il risultato direttamente proporzionale alla fatica.
 
Mi divertiva ascoltare i discorsi dei grandi che decidevano che pomodori comprare
< le pumedore de manduria  o le sammarzàne?>
Dopo aver concluso di comprare  cannuèle e fiaschette, si passava e decidere le quantità:
<a me nu’ quindàle de mandurie  ca a salse avène nu zucchere >
<ije vogghie le sammarzàne  ca rendene assaje decchiù >
<ije  st’anne nonge l’hagghie fatte, menumale ca me l’ha prestate mamà…>


Dritt’e stuerte ognuno diceva la sua e quando si arrivava a decidere quanti pomodori comprare, ci si accorgeva anche che era giunta l’ora di andare a letto e si sentiva una voce:
< S’ha squasciàte u’ capasòne….. ognedune a casa sove >
così si passava alla buona notte, non prima di aver fissato l’appuntamento per la mattina dopo, per comprare i pomodori.

La mattina dopo alle sei già tutti svegli. La macchinetta del caffè sul fuoco gorgogliava diffondendo il tipico profumo del buongiorno.   Verso le sette il consueto suono delle campane, seguito dal tanto atteso:
< Pomodoooori!....Pomodori  per la salsa!..., pomodori per bottiglie!...> 
Erano in molti a vendere pomodori, e ognuno aveva il suo venditore di fiducia, sempre lo stesso,  anno dopo anno, salvo cause di forza maggiore. Quel grido era inconfondibile! Era lui! Biasìne, il nostro pomodoraio di fiducia!
Mia mamma e le mie zie seguivano mia nonna e uscivano  dirette verso il camion. L’addetta alle trattative era la nonna,
<Come so le sammarzane stà’nnate Biasì?>
<Singère, vìde vì ! Arranga arranga vonne, fa cunde ca s’ha sdevacàte u’ cammie>
<…e pumedore de manduria ne tiene? ….. no ne sto veche…>
<E no u sapìte ca quidde so chiù picche, no pozze accundentà tutte quande, ma statte scuscetàte, pe le cliente come a vuije stònne sempre.>
<e fammene do quindale … e do quindale e mienze de sammarzane>
Mentre prende le casse per misurarle  promuove i suoi pomodori dicendo
<na signò … vìde c’è tenghe!>


ma la nonna non si fa abbindolare …….
<…si sì, l’apparàte de suse è bone….>

A quest’affronto  il venditore sdevàghe ndèrre na cascia esclamando
< none no, pare pare so’! Come sùse sotte!>
<…cussì pare! me raccomande lieve le casce  e fa’ buon peso ... falla calà a statère!>


Bott’e risposte nonna contrattava anche il prezzo mentre la delegazione maschile di famiglia cominciava a portare in casa le casse sistemandole fuori sotto una tettoia fatta di cannìzze dove rimanevano un paio di giorni, perché  uno dei dogmi procedurali vuole che i pomodori devono “riposare” prima di essere lavorati.

Intanto sempre le maschele venivano mandati “abbàsce le candìne” e “suse le tramenzàne” per riesumare le casse di bottiglie vuote, la macchina della salsa, le buste dei ramini e “a’ macchinetta p’attappà le buttiglie” , catare, catariedde, e catarotte, càte, limme e   furniedde 
Il  giorno dopo, si lavavano le bottiglie e si facevano asciugare al sole, poi si mettevano in casa suse e sotte  a banche.
La maggior parte erano “trequarti” di Raffo , ma c’erano anche le vecchie bottiglie di Fanta da litro, quelle di vetro marroncino...
Ora tutto era pronto
Il terzo giorno  era quello conclusivo. Per evitare sole e caldo, ci si alzava alle tre, si parlava il meno possibile e pianissimo per non dare fastidio ai vicini.
Le maschele preparavene u fuèche, le piccìnne e le femmene  procedevano alla lavorazione dei pomodori.
La prima cosa era togliere  i pidicìni ai pomodori, poi si lavavano e si passavano indre u’ cate dove venivano sprangiuti  immergendoli in acqua per evitare gli schizzi dei semi.
I pomodori sprangiuti  venivano cotti in enormi catare di alluminio.

Durante il tempo di cottura dei pomodori, le maschele montavano la macchina della salsa, mentre i bambini provvedevano a lavare le foglie di basilico da mettere poi nelle bottiglie.

Quando i pomodori erano cotti, si procedeva a passarli alla macchina da dove usciva una salsa rossa fumante e profumata  che cadeva in grandi limmi da dove veniva presa  c’u cuppìne,  e c’u’ mute s’anchievene le buttiglie, che una volta tappate coi ramini venivano sistemate in  enormi caldaie per essere bollite.  Bisognava fare attenzione a non lasciare spazi,  che durante la bollitura avrebbero  potuto provocare urti tra le bottiglie con conseguente rottura.  Per questo tra le bottiglie venivano messi degli stracci.

Il tempo di cottura secondo mia nonna doveva essere di un’ora, ma spesso e volentieri , eludendo la sua vigilanza, il fuoco si spegneva dopo quaranta minuti, che tutti gli altri ritenevano sufficienti.
Una volta bollite le bottiglie dovevano raffreddare.
Lavate e messe a posto tutti le coppe  usate e la macchina della salsa, il sole era già alto e si faceva colazione con l’acquasale  che la nonna aveva preparato mettendo da parte una coppa de sumènde, quando si spràngevene le pumedòre. L’aveva condita  olie sale e cipodde  e ci aveva messo dentro le fette di pane……
U’ dalle e dalle era finito e quel pane  ci voleva proprio.
Dopo la colazione si uscivano le mante con cui coprire le bottiglie di salsa una volta uscite dalle caldaie.
Ma quante te gire e vuète e arrive menzadie , anche al pranzo provvedeva mia nonna che preparava i suoi buonissimi 
Pummedòre scatteresciate
Un piatto tipico della cucina semplice,  povera di ingredienti ma ricca di gusto.
Per preparli faceva  riscaldare l’olio in un tegame, quando fumava  ci calava i pomodorini interi, condiva con basilico e capperi, metteva il coperchio e lasciava cuocere.
Dopo qualche  minuto i pomodori cominciavano a scatterisciàre (esplodere) e in un quarto d’ora sono pronti da gustare con fedderosse (bruschette) , muerse (pezzi di pane fritto) o frisèdde.
 
E’ vero che l’usanza estiva di fare la salsa si va perdendo, complici  le “offerte” convenienti  di pelati e passate, nei nostri supermercati, e il prezzo troppo alto dei pomodori, che non va al di sotto di 0,45 cent/kg - alleati della nostra poca voglia di  “’nzivamiento”.
Comunque i fedelissimi della salsa “fatt’ a casa” esistono ancora, e sono tanti. Motivo  per cui si vedono girare ancora “trerrote” carichi di “cascette” con cartelli del tipo…”POMODORI PER BOTTIGLIE”…

Quello che invece si è perduto è la preparazione de “ A’ CUNSERVE”.
Molti credono sia la stessa cosa, ma non è così. C’è una differenza sostanziale tra salsa e conserva:
-   La salsa è il succo del pomodoro, che dopo la spremitura e la bollitura viene imbottigliato;
La conserva è il concentrato,e la sua preparazione richiede tecniche e tempi diversi.
Per ottenere “ a cunserve”  i pomodori ben maturi, si mettevano a cuocere in una  “càtara” (caldaia), con abbondante basilico, cipolla tagliata sottile e sale. Quando si ammaccavano, venivano tolti dal fuoco e passati alla “strattiera”, una sorta di grattugia sulla quale venivano schiacciati a mano. La salsa ottenuta veniva raccolta in “piatte riale” di creta che si esponevano al sole, sulle terrazze, dove i raggi del sole sono più diretti. Sui piatti si stendeva un velo per proteggere la conserva dall’assalto delle mosche e intorno ai piatti si usava mettere un rametto di àlaure (alloro) contro gli spiriti maligni.
Di sera i piatti venivano riportati in casa per evitare che l’umidità della notte e la rugiada del mattino, distruggessero l’opera del sole che era  l’unico responsabile della riuscita della conserva.
Si lasciavano al sole per giorni e giorni, rimescolando spesso il contenuto con una “cucchiara” di legno, sino a quando il composto, evaporando, si restringeva diventando denso e di colore rosso scuro tendente al marrone. Si amalgamava con  dell’olio d’oliva  e si riponeva in capase smaltate con “tampagni di legno che prima di essere utilizzati, venivano messi a bagno in acqua per qualche ora così gonfiandosi, garantivano una chiusura ermetica del recipiente.
Queste capase venivano poi bollite a bagnomaria per circa mezz’ora, prima di essere gelosamente custodite per le giornate invernali, quando ne bastavano pochi cucchiai, opportunamente sciolti in acqua calda e conditi con olio e peperoncino, per dare alla pasta  la dignità regale e il sapore della festa.

 

lunedì 11 luglio 2011

Loggia della Libera Mitilerìa … e potere cozzaro

Libera riflessione di una libera Cozzara, dedicata a chi aspira a diventare libero cozzaro, perchè tutti hanno il diritto di essere informati sulla Libera Mitilerìa.

Di solito si confonde la Grande Zoca di TarantoNostra con altre associazioni.
Secondo i princìpi della Mitilerìa, solo la Grande Zoca di TarantoNostra è regolare.
Esso è il solo Ordine, in Taranto, in Italia, in Europa e nel Mondo,  che può conferire la qualità di Cozzaro d’Argento e Cozzaro d’Oro ai  postanti nel Grande Forum Tarantino di Taranto Nostra ; di conseguenza la Grande Zoca di TarantoNostra è riconosciuta dai maggiori Siti tarantini   perché l’unica a perpetuare il Rito cozzaro tradizionale.                                                                                                               
Si potrebbe erroneamente pensare che la libera Mitilerìa  sia una società segreta, ma non è così.  Essa lo è tanto poco che gli affiliati sono tutti conosciuti  e  conoscenti,  quello che scrivono è sotto gli occhi di tutti e le loro riunioni sono filmate su U’Tubbe.

All’inizio i mestieri erano riuniti in corporazioni che prevedevano la progressione evolutiva da Apprendisti a Compagni d’Arte ed infine  Maestri.
Una tra le corporazioni più prestigiose era quella dei cozzaruli e dagli arnesi di lavoro che questi usavano provengono i simboli della cozza nera, il tappo della Raffo, la fiocina, l’ancora:
La cozza nera – simbolo della libertà mentale – come bisogna aprire la cozza per poterne gustare il  sapore, così bisogna aprire la propria mente per capire meglio noi stessi e quello che ci circonda.
Il tappo della Raffo – simbolo di purificazione – come l’acqua , capace di lavare ogni impurità, così è la birra per i cozzari.
La fiocina – simbolo di ordine morale e sodale – per garantire la tranquillità a volte è necessario colpire.
L’ancora – simbolo di appartenenza –  che assicura e garantisce l’attaccamento alla propria terra.
Mentre origine diversa ha l’espressione Loggia – ossia, il balcone da cui si affacciavano le mogli dei cuzzaruli, quando i mariti, all’alba si allontanavano in mare con le loro paranze.

Nell’ A.D.  1999 il G.A. (Grande Architetto) e M.V.(Maestro Venerabile) fondatore fondante di TarantoNostra, nonché G.P. (Grande Presidente)
e il G.S. (Grande Sinneche)  ministro del Culto zocàtico  nonchè G.M. (Grande Membro) della Loggia del CdR, 
assistiti da vari Cozzari d’oro e d’argento, scrivono le prime regole di quella che diventerà la Carta della Mitilerìa moderna, sancendo di fatto la nascita della Libera Taranto Nostra come oggi la conosciamo.

Nell’ A.D. 2007  la Libera Mitilerìa si apre ad innovazioni sostanziali, come l’estensione del conferimento della qualità di Cozzaro d’Argento anche alle donne,  arrivando a nominarne ben tre.
In questo stesso anno tale conferimento si estende dai lidi Cataldiani alle Orobiche lande sino a diffondersi  al continente europeo, dove raggiunge Barcellona.

La Libera Mitilerìa non da potere, è essenzialmente una ascesi - un modo di perfezionamento cozzaro, finalizzato al miglioramento e perfezionamento individuale,  fondamentale per il conseguimento del bene e del progresso generale -  il cui sunto simbolico è:
Una cozza isolata, per quanto bella e buona è inutile.
La sua finalità è di essere sistemata con altre cozze,
allo scopo di formare la zoca, in un certo ordine  di grandezza.
Nessuno è obbligato a divenire Cozzaro d’Argento.
L’ ascesi facoltativa  è conveniente a certi spiriti, ma è deleteria per altri.
La libera Mitilerìa si rivela all’affiliato prescelto a sua insaputa.             
Il cozzaro non saprà chi lo ha eletto e non rivelerà le proposte di nomina.

L’affiliazione alla Libera Militerìa, è vincolata alla partecipazione dei neofiti ad un rituale. Lo scopo del rito iniziatico è suscitare l’interesse iniziale per le cozze.
Per questo il rituale è la  convenscion , a cui partecipano il G.S. (Grande Sinneche)  Ministro del culto zocàtico  e altri cozzari.
Durante le convenscion  lo spirito goliardico cozzaro esplode, il primo “tuzzo” è, obbligatoriamente, dedicato alla Raffo  e non devono mancare delle portate, rigorosamente a base di cozze.

Contriamente ad una convinzione assai diffusa, il Libero Cozzaro può andare via quando vuole, senza neppure dover motivare – altrimenti non sarebbe più libero e neanche cozzaro.

domenica 10 luglio 2011

Il mitile ignoto

I tarantini sono molto legati al mare e ai suoi frutti, particolarmente alle cozze, anche se di solito  "cozza" viene definita una donna poco gradevole, mentre  il termine "cozzaro" indica una persona rozza. 

Ma cosa sappiamo dei mitili? ....poco o niente ... nulla! ..... l'ignoto....

Il mitile ignoto
Chi era costui?...una cozza di genere sconosciuto....che cresce e si moltiplica nelle acque di 
     Tarantonostra.
.....Un essere abituato a sguazzare in acque torbide, nelle quali trova nutrimento, filtrandone le  impurità.
.....Un essere dalla corazza dura.....ma con un cuore grande, generoso,  nutriente e saporito.
.....Un essere che rimane per tutta la vita, legato alle sue origini, alle tradizioni:
     - leggendo classici di avventura, come  "Il cozzaro nero"
     - ascoltando canzoni d'altri tempi....le bellissime e intramontabili ever green   
        come  "Anima e cozze"
     - guardando i films preferiti sono quelli della vecchia scuola, che narrano 
        spaccati di vita d'altri tempi, in una versione realisticamente e
        drammaticamente comica come  "Cozze, limone e fantasia".

Ma la morte sua è in cucina.
A tutti noi capita di partecipare a qualche "Cena delle cozze" che si conclude alla perfezione, con un bel bicchierino di "Calamaretto di Saronno".
Ma anche se molto apprezzate, queste cene possono avere dei postumi poco piacevoli.
Spesso chi esagera nella loro degustazione, abusando della loro versatile, variegata e a volte avariata bontà .......si ritrova a dissentire, non per convinzione o per cattiveria, ma per......dissenteria.
Il mitile ignoto non ha vita facile, e se riesce ad evitare la padella......con molta probabilità non riuscirà ad evitare la brace....
il fuoco artistico lo divorerà e lui nel purtuso sfogherà il suo febbricitante delirio .....finchè un giorno, a sua insaputa non sarà proclamato "Cozzaro".....

....Il cozzaro d'argento......oggi un mito...domani chissà.......un mitomane?

martedì 5 luglio 2011

Ma fa caldo!

In una pubblicità di merendine, si vede una bambina che appena alzata cerca di scappare fuori casa a giocare, e alla mamma che le ricorda di fare colazione lei risponde: <Ma fa caldo!>…..
E come darle torto! D’estate si ha sempre voglia di fresco, anche di cibi freschi e bibite dissetanti e rinfrescanti. E cosa c’è di più buono, fresco, nutriente di un prodotto della nostra tradizione?
Da piccola amavo l’estate perché potevo chiedere a mia madre “Pane ollo e popò” – che nel linguaggio post- lallazione,  indicava proprio la frisella, olio e pomodoro! – che adoravo!

Quanto gusto e quanta freschezza  nelle nostre  “FRISEDDE”!
Ingredienti essenziali, gusto autentico e una fragranza solare.
La frisedda racconta l’umanità di gente povera ma dignitosa, sfruttata ma non rassegnata, che per mare o in campagna ha sempre lottato contro mille avversità  rimanendo tuttavia, sempre  ridente e mai malinconica.
La frisedda è tutto questo: cibo allegro, rustico ma genuino,  semplice ma nobile, perché racchiude in se un valore simbolico e affettivo che va oltre il significato meramente nutritivo e gastronomico.
Essa racconta la fatica  e suscita nostalgia, non per  l’atavico languore della fame pre e post bellica, ma per il rapporto degli uomini con la natura, che col tempo è diventato sempre più superficiale.
Una nostalgia per il filo diretto  uomo-terra-cibo,  e tra lavoro, cibo e  festa - dopo tanto, duro lavoro arrivava il momento tanto atteso del raccolto, un momento sempre di lavoro e fatica, ma che era sempre motivo di festeggiamenti. Feste che ripagavano gli uomini del lavoro di un anno intero, ma che in qualche modo  perpetuavano i riti pagani di ringraziamento alle forze della natura,  che avevano reso possibile il miracolo. Legami che davano significati particolari a colori, profumi, sapori, aromi.
Frisedde….di grano duro, d’orzo, grandi quanto il palmo di una mano, ottime per la prima colazione, per una sana merenda,  o per una cena alternativa…..la frisedda è un eccellente stuzzichino.

Anche la frisedda nacque per caso:
...Un fornaio disattento aveva lasciato  dei panetti nel forno, più del necessario, e si biscottarono. Ma il cibo, e soprattutto il pane, non si poteva buttare. Occorreva trovare una soluzione. Il fornaio li portò a casa, aprì in due i panetti, lungo lo spessore, li sponzò, in acqua e li condì con olio, pomodori, sale…
e la sua distrazione si rivelò molto gustosa ma soprattutto utile, infatti la frisedda essendo pane biscottato, poteva conservarsi più a lungo senza fare la piluscina - ammuffire...


Le frisedde venivano conservate in capasoni e con esse i contadini risolvevano il problema del pasto, quando trascorreva l’intera giornata nei campi. Ma bisogna anche dire che la nostra amata frisedda ha ascendenze nobili e antenati  illustri.  Il pane degli antichi greci era la <meza> un composto non lievitato di farina d’orzo e acqua, biscottato sotto la cenere o su pietre roventi. Era un tipo di pane che si conservava bene, adatto ai lunghi viaggi per mare. Del resto i pescatori conoscono bene la bontà delle nostre cozze, accompagnate con le nostre fragranti frisedde!
La “frisedda”, sempre presente nelle estati tarantine. Giornate trascorse sulle spiaggette del lungomare, allora praticabili,  e al “pizzone”, a sud del mar piccolo, prima che costruissero il ponte.
…Tra sole, polvere  gli antichi turisti campagnoli  arrivavano sugli “scerabbà”, cantando e raggiungevano le spiagge. Arrivati, le donne  “spannevan nu ‘ghiascione tra ‘u scerabbà e due pali conficcati nella sabbia, mentre gli uomini scavavano una fossa a  rip’ de mare,  nella battigia,  e vi mettevano le bottiglie di vino e i meloni rossi e gialli,  per mantenerli freschi.
Così cominciava la festa,  tra scamunere di bambini che gridavano , uomini con le mutande lunghe e donne in camiciola bianca che arrivava al polpaccio – tutti a bagno,   aspettando di poter mangiare le parmigiane e le maccheronate tenute in caldo nei traini - e tra un bagno e una risata si spizzicavano le frisedde, “spunzate” nell’acqua di mare e condite con spicchi di pomodori san marzano.
Il tramonto raccoglieva tutti sullo stesso scerabbà, la pelle striata di salsedine e i volti avvampati dal sole e si prendeva la via del ritorno, tra canti iniziati e non finiti e i più piccoli esausti, in braccio alle loro mamme, che avevano indossato di nuovo i loro vestiti scuri…
Da noi il turismo è nato così. Stabilimenti balneari, ristoranti e pizzerie e discoteche, sono venuti dopo, tutti figli di quelle frisedde ‘nzuppate nel mare.

E parlando di friselle non si può non ricordare <L’ACQUASALE>.
Cos’era? Un’altra  pietanza povera, semplicissima e gustosa, inventata per riutilizzare al meglio il pane raffermo, o per gustare le frisedde… D’estate un vero toccasana...
Mia nonna, prendeva “nù piatte riale” ci metteva dell’olio, dei pomodori tagliati a spicchi, una cipolla rossa tagliata a fettine sottili, capperi e basilico sale e pepe e poi riempiva la coppa di acqua. Rimestava bene bene e poi ci inzuppava le fette di pane duro o le frisedde… una freschissima delizia!
Ma l'acquasale si preparava anche in inverno, naturalmente in una versione calda... anzi bollente...
si soffrigge la cipolla nell’olio, poi si aggiungono i pomodori e il peperoncino ed in fine l’acqua e il sale. Si fa bollire per un po’, giusto il  tempo di amalgamare i sapori e poi si versa in un piatto dove  ci sono i pezzettini di pane, e si condisce con una  spolverata di cacio ricotta salato ... e … ci si lecca i baffi!

Continuando il viaggio tra i freschi ricordi .......bisogna dire che in tempi lontanissimi, i contadini arrivavano dalla Porta di Lecce o di Napoli, nella piazza Grande di Taranto (la nostra Piazza Fontana, sempre cara - nonostante lo scempio) con un prodotto che andava subito a ruba:  
LA PAMPANELLA.
C’è ancora chi ricorda,  nelle strade del  borgo  l’uomo in bicicletta  che  gridava: <“ Pampanè!”>
Altri andavano sulla litoranea presso gli stabilimenti balneari, per offrire agli assetati bagnanti questa rinfrescante prelibatezza nostrana. Un’usanza scomparsa per tanti anni, perché relegata tra i ricordi che riportavano alla luce il nostro povero passato. Una povertà da molti rinnegata e considerata “da dimenticare” perchè umiliante.
Ma ultimamente ,  le nostre povere tradizioni stanno piano piano ritornando, rivalutando il nostro passato in storia,  e sulle nostre spiagge si ritorna a sentire il grido: <Pampanelle! Pampanelle fresche! Pampanelle!> 
dal venditore  che attraversa il litorale trascinando un secchio contenente le prelibate pampanelle.
Cibo esclusivamente estivo, la pampanella richiede pochi ingredienti naturali: latte di pecora, caglio una foglia di fico. La pampanella è latte cagliato, un budino di ricotta avvolto nella foglia di fico, che le conferisce il profumo.
Il suo nome deriva dal fatto che all’inizio, invece della foglia di fico si usava la foglia della vite, il pampino , appunto,  che riusciva a mantenere fresco il contenuto – scopo principale di tale trattamento.
Poi indifferentemente si usarono  anche le foglie di fico, che erano anche più grandi e avvolgenti – e ci si accorse che erano anche impregnate dell’odore di resina che conferiva alla ricotta un profumo speciale.
Un fagottino verde e bianco che riunisce, in un rimando alle antiche leggende (la lupa che allatta Romolo e Remo all’ombra di un albero di fico),  gli elementi primordiali dell’alimentazione, il latte e il fico.
Nulla di spettacolare , però fresca ,  invitante, dal sapore  delicato,  un'ottimo contrasto con il sale dell'acqua di mare e la calura estiva.
E con le pampanelle tra le bancarelle dei mercati rionali, e su alcune spiagge, tra gli ombrelloni e le sdraio, capita di vedere sotto un  ombrellone multicolor, un banchetto con una miriade di bottiglie di vari succhi e pile di bicchieri di plastica, e al centro troneggia, su una lastra di marmo, una stecca di ghiaccio secco. Unico attrezzo del mestiere “ ‘u piallett’” per tritare il ghiaccio. .. si tratta di…‘U GRATTA-GRATTE

‘U gratta-gratte era il gelato di una volta. Non perché i gelati non ci fossero, ma perché erano cose da ricchi, serviti ai banchetti dei nobili, prelibatezze riservate ai giorni di festa e alle grandi occasioni.
Anche i romani conoscevano i gelati. Plinio descrive il dolce estivo dei romani <farina leggera, vino mielato e neve>. Seneca invece descrive l’uso e l’importanza, nell’antica Roma,  delle “neviere” che descrive  come immensi sotterranei dove veniva custodita la neve caduta durante l’inverno, ricoperta di paglia, per farne buon uso all’occorrenza.
Anche nelle campagne Tarantine ogni palazzo e ogni masseria aveva una neviera, di solito alimentate dalla neve della vicina Martina Franca.
Sulla scia dei gelati  fatti con quella neve il popolo  usando il ghiaccio secco inventò ‘u gratta-gratte. Rinfrescante delizia estiva….per tanti anni dimenticata ed ora giustamente rivalutata.
Il gratta gratta, che oggi ci viene venduto in bicchieri di plastica,  andava rigorosamente servito in coppette di ostia, che regalavano un piacere aggiunto ... quando il ghiaccio cominciava a sciogliersi la coppetta si ammorbidiva e quindi si poteva mangiare con lo sciroppo rimasto sul fondo... una vera chicca!  Anche il "povero" gratta gratta, come il vino di qualità richiede il giusto bicchiere!