domenica 13 marzo 2011

Tarantini tra mille

In questi giorni si commemora  il 150° anniversario dell’Unità d’Italia a cui anche i tarantini hanno preso parte.
" Dopo la caduta di Napoleone e la fucilazione di Murat i Borboni ritornarono a Napoli ma Taranto rimase una loro piazzaforte, anche se sempre più trascurata. Piano piano, un’epoca si chiudeva e la restaurazione cominciò anche da noi, anche se non molti se ne accorsero, anzi forse solo uno, quello che sotto una immagine di Piazza Fontana, scrisse:
1816, epoca infausta e rea
la tua funesta idea
sempre fatal sarà
 E proprio contro la “funesta idea” della restaurazione , lottarono per decenni, i liberali giacobini tarantini.
La rivoluzione comincia a concretizzarsi solo nel 1850, quando nella farmacia di Michele Baffi si riunirono Giuseppe De Cesare e Cataldo Nitti, reduci dai moti del ’48, Luigi Carbonelli, Domenico Acclavio e don Cataldo Foresio.
Vincenzo Carbonelli condannato a morte per i moti rivoluzionari a Roma, riesce a fuggire.
Nicola Mignogna invece resiste alle torture nelle prigioni napoletane.
La rivoluzione comincia a prendere piede anche tra i popolani che vedono in Santo Ciancialuso, un capo facchino di taranto, uno dei maggiori esponenti.
La repressione borbonica è inesorabile. Francesco Adduci e Vincenzo Lorusso, vengono arrestati e condannati, per delle scritte sediziose, inneggianti alla costituzione, che erano apparse sulle facciate delle case sulle mura di Mar Grande.
Nel 1856 artigiani e popolani si riunirono nella setta “Mazzini” guidata dal caporale Settimio Monaco.
Il patriota massafrese Saverio Fanelli  fu l’autore di una rocambolesca evasione dalle carceri tarantine nel novembre del 1857. Ricavò un’impronta di cera della chiave della cella e la consegnò al fratello Nicola che la consegnò ad un fabbro che ne ricavò il duplicato della chiave. Aiutato poi a fuggire  da una donna, la giovane figlia del carceriere (a quanto pare, di lui innamorata) che intrattenne le guardie mentre il Fanelli si allontanava da Taranto su un traino carico di carbone, guadagnando la libertà e una condanna in contumacia a 24 anni di carcere.
Il fiume rivoluzionario era in piena e a quanto si di dice, lo stesso Garibaldi, sotto le spoglie di un venditore di candele, incontrò segretamente i cospiratori tarantini nei pressi di Castellaneta.
Ormai il risorgimento sta compiendosi. Il malcontento invade tutti e nella notte tra il 5 e il 6 maggio del 1860 Garibaldi parte da Quarto alla volta della Sicilia con i suoi “Mille” tra cui:
Il cappuccino Aurelio Perrone, l’architetto Gaetano Piccione, l’avvocato Egidio Pignatelli, Vincenzo Pupino, Francesco valente, Antonio Petruzzi, Francesco jurlaro, Nicola Galeandro, Tommaso Catapano, Riccardo Agostinelli, Nicola Galeota, Orazio Carducci, i fratelli De Gennaro, il massafrese Fanelli, il manduriano Schiavone.
Insieme ai più famosi: Vincenzo Carbonelli che diverrà pro-dittatore del cilento, Irpinia e Puglia, e Nicola Mignogna pro-dittatore in Basilicata.
 Partire era un dovere anche se il distacco dalle famiglie era doloroso, e questi sentimenti pervadono i versi del  Canto di addio del volontario:
“Addio mia bella addio,
l’armata se ne va,
se non partissi anch’io
sarebbe una viltà.
Il sacco e le pistole,
il fucile io l’ho con me,
allo spuntar del sole
io partirò da te…”
 
(liberamente tratto da "La storia di Taranto" di M.Lazzarini, P.Massafra, R.Nistri - 1972)

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