domenica 19 giugno 2011

Lasse dè mètere e va’ a’ pisà

Taranto è  “la città dei due mari”, in onore a Mare picce (Mar piccolo) e Mare màsce (Mar grande), ma è riduttivo, perché di mari ne ha molti di più…  uno verde di pampini e ulivi e in questo periodo uno dorato che cullato dal vento ondeggia sui nostri campi. 
In questi giorni percorrendo la litoranea e i paesini della provincia ci si imbatte in distese dorate, è il grano, il nostro oro,  che si protende al cielo aspettando di essere raccolto.  Oggi tutto avviene con le macchine che mietono e trebbiano , ma una volta no… 
Oggi andiamo al supermercato per rifornire le nostre dispense, ma una volta non c’era l’approvvigionamento globale a garantire gli scaffali pieni nei supermercati, ognuno aveva, o cercava di avere il suo terreno…la campagna o meglio la ‘ngegna da coltivare tutto l’anno per provvedere almeno al fabbisogno della famiglia.   Una malannata, con i raccolti distrutti,  portava fame e miseria…  e uno dei raccolti primari, oggi come ieri, è il grano, un elemento indispensabile per la nostra vita.
Taranto aveva un territorio ricco di masserie,  che prendevano il nome dei proprietari o del luogo dove erano ubicate:  Ospedalicchio (D’Ayala Valva), A’batresta (famiglia Abateresta), u’ Jucche (famiglia Lo Jucco), a’ battaglia (famiglia Bonelli de Beaumont),  Lucignane (famiglia Galeota), Pizzariedde (contessa Carducci),  Nisi (Famiglia Delli Ponti-Capitignano-d’Aquino) Capitignano (famiglia Capitignano-Lo Jucco-De Sanctis) Calapriciedde (famiglia Sbano-Verusio), Lecutrane (Famiglia Monaco), Misicure, Muromaggie, Rapidde, Papale, Giangrande, Gennarini, Tuscane, Pasturelle  , Sanguzza, Sanne Mineche
e questo per ricordare solo le più note.
Vicino le masserie nascevano nuclei abitativi dei contadini che provvedevano a lavorare i campi, a trasformare e commerciare le risorse agricole e ad accudire gli animali da lavoro e da allevamento.
Tutto ruotava intorno alle masserie, uniche fonti di lavoro dell’epoca e per questo richiamo della gente di fuori, e la vita delle masserie era cadenzata  al ritmo del ciclo naturale del grano: l’aratura dei campi, la semina, la masciatura, la mietitura, la trebbiatura e la panificazione. Intorno al grano ruotava l'intera annata agraria e quindi la vita dell’uomo.

La mietitura era un lavoro duro che non tutti riuscivano a sostenere, per questo i mietitori venivano caparrati (ingaggiati) molto tempo prima nei paesi vicini: Leporano, Pulsano, Lizzano … sino nelle zone del capo… così arrivavano le pueppete  - ossia i contadini leccesi –
Le pueppete assieme alle furìse  -  la manovalanza contadina che arrivava da tutta la provincia -  erano uomini semplici “ciuccie de fatjia”  ma non erano istruiti, per questo si usa dire:  “le solde de le furìse so buène fatiàte e male spìse” .
Anche mia nonna faceva parte di loro e raccontava che arrivavano nelle masserie percorrendo chilometri e chilometri a piedi scalzi – pronti ad alzarsi all’alba per recarsi sui campi. 
Le femmene provvedevano alla màscia, operazione che si effettuava a maggio (da cui il nome)  per liberare i campi di grano dalle erbaccie. Quando i campi erano puliti, e il grano maturo si procedeva alla mietitura. I lavoranti si disponevano a squadre, ognuna formata da quattre uemmene mititure che tagliavano le spighe cu a’ foce ( con la falce) seguiti da u’ scirmitàre, ca’ taccave le manate (il legatore che legava le falciate di grano che tagliavano i mietitori) le do’  femmene che raccoglievano le spighe che cadevano durante la raccolta.
Alla fine tutte le manate venivano raccolte a’ mannucchie (covoni) e venivano trasportati nell’aia delle masserie e….

Finìte di mètere se sceve  a pisà
Dove il termine pisà, false friend dialettale, non indica la pesatura del raccolto ma la trebbiatura, ossia la sua battitura a mano mediante semplici bastoni, oppure con l’aiuto di cavalli asini o buoi, sfruttandone il calpestio, o facendo trainare grosse pietre, tutto per sgranare le spighe e farne uscire i chicchi.  Nella nostra parlata  il termine pisà ha diverse eccezioni come quando si dice: te pìse de mazzate (ti carico di botte). U’ pisature è il termine che indica il pestello, detto anche u’ murtale (da mortaio). Una volta finita la trebbiatura si aspettava che si alzasse il vento per continuare alla vintilàta. Ossia alla pulitura del grano mediante la separazione dei chicchi dalla paglia. Con i forconi si lanciavano le spighe sgranate in aria così il vento faceva volare lontano la paglia e i chicchi ricadevano al suolo. Il grano veniva raccolto in sacchi e portato nei granai delle masserie, la paglia veniva raccolta e portata nelle stalle perché serviva a sfamare gli animali.
U’  respiche …
Dopo la mietitura si procedeva alla bruciatura d'u’ ristuccie (delle stoppie).  I meno abbienti andavano a chiedere ai massari, il permesso, formale perché sempre concesso,  di  scè a u’ respighe (andare a spigolare) nei campi dove avevano appena mietuto. Con tutta la famiglia andavano a raccogliere le spighe che erano rimaste “’mmienze a u’ ristucce” (tra le stoppie), tra i solchi della cenere, e  i chicchi di grano sfuggiti  agli uomini e agli uccelli
Giornate di duro lavoro passate a chinarsi continuamente, sotto il sole cocente, la canicola di giugno accentuava la spossatezza, soprattutto dei più sfaticati…e a questo si riferisce il detto:
 A’ mugghiera mejie (o u’ marite mjie) ha sciute alla spiche, picche n’acchie  e picche se ‘gghiche.
 …ma la farina ricavata da quei chicchi bruciati avrebbe sfamato tutta la famiglia e questo era l’unico modo per garantirsi “il pane”… e non solo.
‘Mmienze a ‘u ristuccie raccoglievano anche “le cuzzedde” (le lumache) –  la carne in carrozza dei poveri - che erano una vera e propria ghiottoneria oltre che una fonte di nutrimento perché ricchi di proteine.
Le cuzzedde, lessate e condite con olio aglio e menta erano un ottimo secondo … ma a volte costituivano il pranzo o la cena. A volte servivano ad “arricchire” minestre di verdure come la ciambotta o le patate e zucchine… Infondo sempre di carne si tratta…
I campi si animavano di vita, lavoro, ma anche di grida, risate, canzoni e balli propiziatori, ma anche “balli di San Vito” ( S. Vito si festeggia il 15 giugno) causati dal morso della tarantola, che pare abitasse proprio i campi di grano e si divertisse a “pizzicare” le mietitrici che “avvelenate” dal morso della tarantola e dai rimorsi di una vita di privazioni fatta di regole da rispettare e di “onore” da  salvare  (quale onore?  e di chi? – quello della gente che mormora?...)
Comunque, questa “malattia” del corpo e della mente si manifestava con movimenti strani e aveva come unica cura la musica che doveva assecondare i movimenti della tarantata tanto da dare l’idea di un “ballo” frenetico e ossessivo che continuava anche per giorni,  fino a sfinire il corpo, e solo in questo modo, affrancando le frustrazioni e placava l’anima guarendola.
Altre volte era necessario ricorrere a veri e propri esorcismi che nel Salento avvenivano per intercessione di S. Paolo – per questo le tarantate venivano portate a Galatina presso il santuario dedicato al santo.





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